Racconto di viaggio in Bosnia ed Erzegovina con Radio Popolare

Il nostro viaggiatore Giovanni, di ritorno dal viaggio in Bosnia ed Erzegovina organizzato in collaborazione con Radio Popolare, ha scritto un racconto sulla sua esperienza. A seguire ne pubblichiamo un estratto.

Arrivo a Spalato in mattinata, incontro con il nostro mediatore culturale e trasferimento in pulmino privato per il villaggio di Počitelj in Bosnia-Erzegovina. Sistemazione presso la colonia d’artisti fondata su stimolo di Ivo Andrić negli anni sessanta ed oggi utilizzata in parte come pensione (…) Nel pomeriggio spostamento a Mostar (…)

Quando il Stari most, o Ponte Vecchio, è crollato dai bombardamenti dei carri armati nel 1993, è stato come se il cuore fosse stato strappato alla maggior parte dei nativi di Mostar. Ora, la bella struttura in pietra che aveva attraversato il fiume Neretva per oltre quattro secoli ancora una volta si inarca attraverso le sue acque impetuose. Il ponte è il nucleo di Mostar e la sua ricostruzione significa che la vita sta lentamente ma sicuramente tornando alla normalità (…)

 

(…) 3° giorno giornata interamente dedicata alla capitale della Bosnia-Erzegovina (…) Nel pomeriggio prenderemo la vecchia funicolare austro-ungarica di Bistrik da poco riaperta per una camminata sul Trebeviċ in compagnia di un attivista locale per riflettere sulla Sarajevo contemporanea (…)

La Bascarsija è il quartiere centrale di Sarajevo, immersi in un’atmosfera unica, di incontro tra oriente e occidente. Circondati da minareti, moschee, campanili di chiese cattoliche ed ortodosse. Profumi di ogni dove, colori vivacissimi, mille lingue diverse, sovrastate di tanto in tanto dal canto dei muezzin.

Se dall’alto lo sguardo si sposta invece verso il basso, è l’asfalto a riportare indietro nel tempo. I marciapiedi della città sono stati rifatti per l’ultima volta negli anni ’80, la guerra li ha attraversati e i successivi diciotto anni di pace e ricostruzione non li hanno toccati. Passeggiando tra gli alberi sull’argine della Miljacka, così come nel centro storico e nella Baščaršija ottomana, i piedi camminano sopra l’asfalto dell’assedio, dove le bombe e i colpi di mortaio hanno lasciato il loro segno. Le chiamano “rose di Sarajevo“, e quelle ricoperte di resina rossa sono quelle che si sono portate via la vita di uno o più cittadini sarajevesi. Scrive Jasminko Halilović: Durante l’assedio eravamo suddivisi tra quelli che hanno con le loro vite hanno piantato le rose, e quelli sopravvissuti che le annaffiavano con le loro lacrime”.

(…) 4° giorno lungo le tracce della comunità ebraica cittadina guidati da un suo rappresentante: dalle due sinagoghe askenazita e sefardita al cimitero (…) il cimitero ebraico di Sarajevo fu usato dai cecchini cetnici come postazione privilegiata per colpire i civili in città. L’assedio di Sarajevo fu soprattutto una caccia all’uomo disarmato, al ragazzino, al passante disperato in cerca di un po’ d’acqua. Le lapidi degli ebrei sarajevesi, in gran parte scappati prima, durante e dopo la Jugoslavia, erano già abbandonate, e furono crivellate dai proiettili, scavate, scoperchiate, usate come scudi. I cetnici arrivarono quasi a scavare delle trincee. Quando la postazione fu abbandonata, il cimitero venne addirittura minato, come larghe regioni dentro e intorno alla Bosnia Erzegovina.

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