Seconda per grandezza nell’arcipelago toscano, Riserva della biosfera MAB Unesco, l’Isola del Giglio è la nuova tappa del Grand tour delle donne in Toscana. Qui, tra il porto pittoresco, il suggestivo borgo medievale di Giglio Castello, il mare trasparente e la natura incontaminata, questa volta abbiamo incontrato tre donne che portano avanti le tradizioni isolane, accomunate dal forte orgoglio identitario, nel nome dell’autenticità.
Milena Danei e il vino gigliese
Per metà austriaca e per metà gigliese. La storia di Milena Danei è un percorso di andata e ritorno nell’isola. Figlia di una turista viennese che 40 anni fa approdò al Giglio per una vacanza e trovò della l’amore della sua vita, eleggendo da subito a dimora l’isola. Una terra che non si lascia con facilità. Milena ci è nata e cresciuta, poi come tutti ha dovuto allontanarsi per gli studi, perché al Giglio non ci sono licei.
“Ho studiato viticoltura ed enologia a Firenze e poi a Torino – racconta -. Poi iniziato una serie di esperienze che mi permettessero di ritornare preparata a produrre il mio vino nella mia terra. Per ottimizzare il tempo ho fatto il giro dei due emisferi, in modo da poter seguire una doppia vendemmia per anno”.
Alternando Francia e Italia con Nuova Zelanda e Cile, dove ha conosciuto il marito, alla fine Milena Danei si è fermata in patria. “Nel 2012 sono arrivata a Montalcino per un lavoro prestigioso in una cantina – spiega – e ci sono rimasta 7 anni. Poi, quando sono rimasta incinta del secondo figlio, sono ritornata sull’isola per iniziare la mia nuova avventura nei tre appezzamenti che mi ha donato mio padre, avviando le Cantine Parasole”.
Un nome che incuriosisce. “Parasole era il soprannome di mio nonno Scipione – dice l’enologa – che aveva le spalle abbastanza grandi da riparare dal sole. Ho scelto questo nome per onorare la tradizione di famiglia: anche lui faceva vino, seppur in scala minore. Oggi le cantine producono 2500 bottiglie l’anno, ma il mio sogno è crescere, continuando a prendermi cura delle mie vigne quotidianamente”.
Paola Pini e il faro del Fenaio
Dall’entroterra alla costa, la storia di Paola Pini è legata al sogno di trasformare il faro di punta Fenaio del 1883, ormai in disuso, in una struttura ricettiva: “Nel 2015 sono risultata vincitrice di un bando per l’appalto a privati della gestione dei fari – racconta -. Nel 2016 c’è stata l’aggiudicazione del faro di Punta Fenaio e così è iniziata la mia avventura di albergatrice. Ci piaceva l’idea di avere un locale così singolare, così bello, e soprattutto di ridare vita a una struttura in decadenza. Ci siamo innamorati del posto: abbiamo il mare a 50 metri, tutte le sere possiamo catturare il tramonto: qui il tempo scorre in modo differente, come in un’oasi fuori dalla vita ordinaria”.
Il vero incontro tra Paola Pini e il “suo” faro è avvenuto vivendoci, dopo una vita trascorsa nella parte più urbanizzata dell’isola.
“Quando vivi nel centro dell’isola il faro non lo vedi, è una realtà che ti sfugge – spiega -. Solo quando lo abiti ne comprendi il valore e anche le difficoltà oggettive, come la mancanza di una buona connessione telefonica, la strada accidentata per arrivarci. Ma quando i vacanzieri non ci sono, apprezzi il contatto con il silenzio, con i rumori naturali: il mare, il sole il vento”.
Chi arriva al faro del Fenaio deve essere preparato a una vacanza di disconnessione, ed è quello che cerca la maggioranza dei viaggiatori: “Spesso chi prenota online non è preparato – commenta Paola – invece è importante essere consapevoli delle caratteristiche di questo luogo, e avere come desiderio quello di staccare la spina dal quotidiano e inseguire la pace del silenzio”. Solo così si può apprezzare il regalo del faro, nel segno di un benessere che rigenera.
Marina Rossi. Dalla pirite ai piatti della tradizione gigliese
Prima di iniziare l’avventura nella ristorazione, Marina Rossi studiava pedagogia a Firenze, poi ha conosciuto il marito e intrapreso un’attività alberghiera per 30 anni. Quattro anni fa, è arrivata La Miniera, il ristorante di Giglio Campese che prende il nome dalla Miniera del Franco nella quale, all’inizio del XX secolo, si estraeva la pirite. Qui lavorava il nonno di Marina, morto prematuramente come tanti minatori dell’epoca: “Si possono ancora vedere i piloni che servivano per trasportare la pirite con le carrucole sulla terraferma”, racconta.
Il forte legame con il passato e con la tradizione dell’isola che si legge anche nei piatti che Marina Rossi prepara ogni giorno. “Ho cercato di ricreare le tradizioni delle ricette isolane – spiega la ristoratrice – come il filetto di tonno condito con cipolla di Tropea, che chiamiamo tonnina, oppure lo scaveccio, la gallinella fritta coperta da composta di uvetta”.
Rimpianti? La risposta di Marina Rossi è immediata e sicura: “Non vivrei da nessun’altra parte. Sono una donna di 70 anni, qui ho cresciuto i figli con le difficoltà oggettive, mancano le scuole e c’è solo un medico condotto, ma ci vivo felicemente. E anche se siamo 800 anime d’inverno, la vita sociale, soprattutto in zona castello, non manca. Certo, c’è stato e c’è un grande esodo di famiglie, ma il filo con questa terra non si rompe mai”. Prima o poi tutti fanno ritorno.
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