La musica del bosco

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Questo articolo è pubblicato sul numero 44 di Vanity Fair in edicola fino al 3 novembre 2020

I due anni che sono passati dalla tempesta Vaia a oggi sono un lasso di tempo strano: non è più una ferita aperta, non è ancora una cicatrice intorno alla quale vivere. La sera del 29 ottobre 2018 nell’Italia Nord-Orientale vennero giù in mezz’ora otto milioni di metri cubi di alberi, un evento di proporzioni mai viste sul nostro territorio.

«È stato l’11 settembre dei boschi», mi dice Antonio Brunori, segretario generale di Pefc, uno degli schemi di certificazione per la gestione sostenibile delle foreste. Vaia ha cambiato la vita delle persone, delle comunità, delle valli in Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia. Il primo anniversario era rivolto ancora al passato, fu di commemorazione, elaborazione del trauma. Il secondo invece è già per la rinascita, la cura del presente e la preparazione al futuro. Come in ogni post emergenza, in questi due anni le priorità si sono inseguite e accavallate: mettere in sicurezza strade e sentieri, proteggere il mercato dalla speculazione, salvare il legno caduto, liberare i boschi e capire come farli ricrescere. Quelle foreste erano composte soprattutto di abeti rossi, alberi belli e instabili, venuti giù come in un domino per la forza dello scirocco arrivato da sud. Una piccola percentuale, uno su mille, erano i preziosi abeti di risonanza, quelli che lavorati con cura diventano tavole armoniche per strumenti musicali. Era un piccolo aspetto della catastrofe dal punto di vista quantitativo, ma nei mesi successivi a Vaia ha avuto per tutti un grande valore simbolico.

La Ciresa di Tesero (Trento), guidata da Fabio Ognibeni, è una delle aziende di settore con più esperienza in Europa. «Il legno è la voce di piano-forti e violini», spiega Ognibeni, «spediamo tavole in ogni parte del mondo: Australia, Canada, Sudafrica. E lavoriamo ovviamente con liutai locali». Per lui la rinascita post Vaia è partita contattando le aziende che stavano raccogliendo le cataste di migliaia di tronchi caduti e chiedendo il permesso di ispezionarli uno a uno, per cercare quel quadrifoglio di legno che è un abete di risonanza. Senza la sua ricerca, quei tronchi sarebbero diventati tavoli e librerie invece di violini, viole, contrabbassi. Qualcuno magari si è ritrovato una scrivania che quando ci poggia il computer sopra suona come uno Stradivari, ma molti abeti di risonanza Ognibeni è riuscito a salvarli, anche grazie a una campagna di crowdfunding. I fondi arrivati da tutta Italia gli hanno permesso di avere le risorse per fare scorta e raccogliere dalle cataste la fonte della musica di migliaia di strumenti nel mondo. Come ringraziamento ha inviato ai donatori una tavola di legno di risonanza col loro nome e un grazie a nome di liutai e musicisti. «Abbiamo scoperto di avere molti amici che non sapevamo di avere. Un nonno ha versato dieci quote, ha chiesto una tavola per ognuno dei nove nipotini e la decima in bianco, per non mettere limiti alla provvidenza».

Ilario Cavada invece è un tecnico forestale della Magnifica Comunità di Fiemme, in Trentino. In un Paese come l’Italia nel quale i boschi sono invisibili, quello di Fiemme e del suo antico organo comunitario è sempre stato un modello di gestione collettiva e sostenibile, che funzionava da secoli come un orologio, prima del vento di due anni fa. Nel gergo dei forestali, l’albero a terra dopo un evento naturale si chiama «schianto». Noi usiamo la parola schianto per il rumore della caduta, per loro gli schianti sono le conseguenze del fragore, l’albero sradicato. Nella Val di Fiemme quel legno è vita, economia, futuro e lavoro. Uno schianto ha una finestra di due anni per essere utilizzato come legname di qualità, dopo inizia a marcire, viene attaccato dai funghi, diventa secco e buono solo da ardere, dopo un po’ nemmeno quello. È uno dei motivi per cui il mercato è crollato e le comunità di montagna come questa sono entrate in difficoltà: quando i compratori, che in questo caso erano soprattutto tedeschi, austriaci e cinesi, sanno che c’è tanta materia prima e poco tempo per venderla, i prezzi crollano. Per questo motivo Cavada si è affidato innanzitutto all’acqua. «Abbiamo irrigato e mantenuto umido il legname, in questo modo gli abbiamo allungato la vita di almeno quattro anni».

 

L’altro elemento decisivo per la rinascita dopo la tempesta è l’ondata di commozione che c’è stata in Italia, la stessa che ha permesso all’azienda delle tavole armoniche di resistere: «Ci chiamavano al telefono da ogni regione chiedendo come aiutare, dare una mano». Una delle risposte è stata la creazione di Wow Nature, un portale pensato con l’Università di Padova che permette a chiunque di adottare e piantare un albero nelle aree colpite, per poi poterne seguire la crescita a distanza. Con la comunità di Fiemme chi aveva tempo e voglia ha anche avuto la possibilità di venire in valle a farlo personalmente, i gruppi non hanno smesso di arrivare in questi due anni, lockdown a parte.

C’è una cosa che Ilario Cavada ha notato, dopo la tempesta. Lo raccontano tanti di quelli che sono stati colpiti dall’evento. Gli italiani si sono accorti dei boschi, hanno iniziato a vederli. «Uno shock serve anche a creare consapevolezza, il bosco è più dell’insieme di alberi dove fare una passeggiata». Sono soprattutto, i boschi, uno specchio di quello che siamo come Paese, raccontano la nostra storia. La loro superficie negli ultimi cento anni è raddoppiata, non per scelta o programmazione ecologica, ma per abbandono: abbiamo smesso di essere contadini e allevatori, la montagna e l’alta collina si sono svuotate e il bosco, che non chiede mai il permesso, si è preso lo spazio libero. Si è creato nel corso degli ultimi decenni un immenso patrimonio ambientale, che oggi è più di un terzo di tutto il territorio nazionale, più che in Francia e Germania, del quale di fatto l’Italia non si è mai occupata. Vaia è stata un campanello d’allarme. «La tempesta ci aveva mostrato la fragilità delle foreste e poi il Covid quanto siamo connessi alle risorse naturali», spiega Brunori di Pefc. Gli schemi internazionali di certificazione forestale per la gestione sostenibile, Pefc (Programme for the Endorsement of Forest Certification) e Fsc (Forest Stewardship Council), sono un anello fondamentale nel processo di rimettere il bosco e il legno al centro della società italiana.

Nel dopo Vaia il primo ha attivato una filiera solidale, che ha permesso usi virtuosi degli alberi caduti: i paletti delle spiagge in Veneto, i taglieri di Slow Food, un intero edificio a Rovereto, una struttura di social housing che sarà anche il più alto palazzo di legno in Italia.
Fsc ha creato strumenti per misurare l’impatto di una buona gestione delle foreste sui servizi ecosistemici, come l’assorbimento del carbonio, la conservazione delle acque, del suolo e della biodiversità. È il modo per applicare la lezione imparata con Vaia: un bosco non è solo un bosco, è anche territorio, comunità, ambiente e lavoro. La nostra vita in pianura e in città è sicura se lo sono le montagne e le colline. Vale sempre, ma ancora di più oggi col cambiamento climatico in atto, che fa della gestione della parte forestale d’Italia una delle questioni decisive per il nostro futuro.

E infine c’è la questione più delicata: come incoraggiare la rinascita dei boschi nelle aree più colpite. Lo chiedo a Mario Pividori, docente di Ecologia forestale all’Università di Padova, uno dei massimi esperti che abbiamo in Italia. «Il problema è che nel tempo degli alberi due anni sono nulla, è come se fosse passato un secondo. La prima cosa da capire è che nessun bosco è andato distrutto con Vaia». Un bosco sparisce quando al suo posto si costruisce un’autostrada o si pianta un campo di mais. «Gli alberi sono caduti, ma il bosco è ancora lì, con i semi, gli arbusti, la fauna». Ci sono due scuole di pensiero, quella di chi ha fretta e quella di chi non ha fretta, piantare o aspettare che il bosco faccia da sé. Entrambe hanno vantaggi e svantaggi, in molte aree – come nella Val di Fiemme – si è scelto di seguire entrambe le strade a seconda delle esigenze. «Forzare la crescita vuol dire costruire boschi artificiali, meno resilienti, con poca biodiversità. Il vantaggio è che così in poco tempo il bosco c’è e questo risponde al bisogno umano di vedere tutto di nuovo uguale dopo una catastrofe». In alcuni casi poi è necessario accelerare, per esempio quando bisogna proteggere dei ver- santi dalle frane. L’altra strada è aspettare le dinamiche naturali, permettere al bosco di trovare la sua strada da solo. «La rinnovazione naturale mette sempre la specie giusta al posto giusto, crea un ambiente più stabile e resistente, ma ha bisogno di più tempo. Tra dieci anni vedremo soprattutto i vantaggi dell’artificiale sul naturale, dopo i vent’anni da oggi vedremo quelli del naturale raggiungere e superare l’artificiale».

Foto: STEFANO D’AMADIO

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