Tornare a respirare

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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 25 di Vanity Fair, in edicola fino al 30 giugno.

Esistono odori fisici. Odori che ti appartengono. Odori diversi da tutti gli altri. Se penso al Trentino penso all’odore del bosco. Un profumo di muschio, montagna e nostalgia, l’unico che mi ricordi davvero casa. Il luogo che ho lasciato a diciotto anni e che oggi – adesso che i miei genitori non ci sono più, i decenni sono passati ed è trascorso definitivamente anche il tempo in cui non mi riconoscevo – è l’unico posto in cui mi riconosca e per il quale avverta un ritorno di fiamma. Ero giovane. Volevo andare via dalla provincia, fuggire altrove, mettere sei ore di treno tra me e le mie origini, scappare lontano per conquistare qualcosa che non riuscivo a definire, forse solo per disegnare una mia identità.

Arrivai a Roma nel 1983. In una grande città, dominata dai rumori, dalle feste di piazza per lo scudetto vinto dalla Roma di Nils Liedholm. Alle finestre sventolavano le bandiere giallorosse. Ho continuato poi a giocare la mia partita, a girare il mondo, a vedere altre bandiere, altri panorami, altri scenari fittizi e reali. Ora che quel fotogramma sgranato compie quasi quarant’anni e mi volto a guardarlo, scopro che quello che mi sono lasciata indietro non se ne è mai veramente andato ed è davvero un pezzo di me.
Faccio parte di un popolo chiuso. Gente austera, sincera, solida e diffidente. Aggettivi che mi si attagliano, che mi somigliano, che potrebbero descrivere il mio carattere senza altre aggiunte. Peculiarità di cui sono consapevole e che con il mestiere che ho fatto mi hanno fatto patire. Noi trentini siamo fatti così: titubiamo ed esitiamo, ma se decidiamo di aprirci sappiamo dare tutto. Sciogliermi, aprirmi e fidarmi degli altri non è stato semplice. L’ho fatto e nel frattempo ho smesso di fare la guerra a me stessa e al mio passato.

Quando mi capita di tornare dalle mie parti – per molto tempo l’ho fatto con fatica, a malincuore, in preda a chissà quale ritrosia – non pulsa più alcuna conflittualità perché ora non sono più in conflitto con nessuno. Dirlo è semplice, ma saperlo è bellissimo, incredibile, sorprendente. È una sensazione che non avevo mai provato prima.  Mio padre lavorava nel comparto zootecnico. Ogni tanto, a causa del suo mestiere, andava a Roma e tornava a Trento con il suo carico di racconti apocalittici. Lo ascoltavo e pensavo: «Sarà realmente così terrificante Roma?». Trento è molto cambiata, ma all’epoca, nonostante ancora si tramandasse l’epica di un ’68 che per ragioni anagrafiche non avevo fatto in tempo a vivere, mi appariva chiusa, quasi ansiosa di tirare giù le serrande, fare silenzio, arrivare al giorno dopo. Oggi quando ci cammino, respiro a pieni polmoni e torno agli odori di cui parlavo all’inizio, nonostante abbia amato Roma e le debba molto, mi domando soltanto se non mi sia sbagliata e non abbia confuso un abbaglio per un destino. «Come ho fatto a stare per tutti questi anni in una città in cui non si respira?», mi chiedo e non mi do risposte perché ogni epoca ne ha una e non è mai quella che desideriamo quando indaghiamo il futuro perché il futuro, per definizione, lascia soltanto rimpianti e non si fa interrogare. Non si fa interrogare mai.

(*Francesca Neri, 56 anni, attrice molto amata dal cinema d’autore italiano e internazionale. È anche produttrice. Ha un figlio, Rocco, 21 anni, dal marito, l’attore Claudio Amendola).

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