Questo articolo è stato pubblicato sul numero 24/25 di Vanity Fair in edicola dal 17 giugno
Venezia anche per noi, che veniamo dalla campagna, con il sole in piazza rare volte, e il resto è pioggia che ci bagna (mi auguro che Paolo Conte non me ne voglia, se utilizzo in maniera infedele uno dei suoi bellissimi versi), Venezia, dicevo, non è un’idea come un’altra, a differenza di Genova. Non fosse altro perché è unica e irripetibile, nonostante i numerosi tentativi d’imitazione o di replica. Se pare impossibile sfuggire alla sindrome di Stendhal che coglie il visitatore alla vista della sua incomparabile bellezza, è pur vero che l’eccesso di tanto crudele splendore può generare in alcuni l’effetto opposto: un moto di rifiuto inconsapevole, una temporanea cecità indotta, per così dire, un gesto estremo di autodifesa per non esserne travolti e restarne impietriti. Il rischio esiste. Avversione al posto dell’amore, disinteresse in luogo dell’attrazione.
Avevo trent’anni la prima volta che ci ho messo piede, da turista impreparato. Stupore, e molta reticenza a lasciarsi conquistare del tutto, anche per via dell’apparenza di parco a tema (in crescita, con l’incremento esponenziale del turismo di massa). Partita sospesa, rinviata a data da destinarsi. Ci sono tornato diciotto anni più tardi, come Direttore della Mostra del Cinema. Venuto per restarci, il mio permesso di soggiorno si esaurì dopo soli tre anni, senza che nel frattempo fossi mai riuscito neppure a scalfire l’impenetrabile coltre di acqua, luce e marmi che ne proteggono da sempre il fascino immenso e misterioso. Come un amante respinto, ne avevo conservato un ricordo intriso di amarezza e spirito di rivincita. Un nuovo rinvio, apparentemente sine die. E invece, tredici anni dopo, il colpo di fulmine: autentico, fatale e definitivo. Per scacciare il maleficio, servì la congiunzione casuale di tre elementi: il calore di una notte d’estate, la luna piena sulla città deserta nell’ora antelucana, e l’estasi amorosa di un legame sentimentale ai blocchi di partenza. La magia era compiuta, l’incanto radicato per sempre.
Da allora, fine dei dubbi. Nessuna città al mondo (ne ho visitate e amate tante) ha inciso in me un’impressione altrettanto profonda di quella provata in quel momento. Venezia è unica nella sua magia priva di eguali. Venezia è anche la conferma che tutti i luoghi comuni che aleggiano su di lei possiedono un fondo di verità: la città degli innamorati, popolata da fantasmi più che da esseri umani, avvolta in una luce singolare che non esiste da nessun’altra parte.
Se non avete mai visto un tramonto a Venezia – meglio se dalla riva del Lido che costeggia la laguna, punto di osservazione privilegiato per osservare lo skyline della città con i suoi campanili un po’ sghembi sullo sfondo infuocato del cielo – non potete capire che cosa intendo dire. Sostengono i sensitivi (ma ho il sospetto che qualche fisico quantistico sia disposto ad avallare la teoria) che dopo la morte di un essere vivente, o la conclusione di un grande evento storico, permanga nel luogo da esso frequentato una forma di energia inesauribile, che si percepisce anche a distanza di tempo. Provate a perdervi per le calli poco frequentate dai turisti – esiste una Venezia che nessun cinese o giapponese ha mai visto nelle 24 ore trascorse in laguna – e poi ditemi se non vi siete sentiti trasportati indietro di qualche secolo, quando Venezia era la dominatrice del Mediterraneo orientale. O se, saliti su un motoscafo che percorre il Canal Grande, non avvertite la presenza della moltitudine di divi che vi hanno preceduto, alimentando da decenni il glamour inarrivabile della Mostra del Cinema. La macchina del tempo non è l’invenzione di uno scrittore di fine ottocento. Esiste da sempre. Si chiama Venezia.
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