In un angolo appartato di Milano, quasi nascosto malgrado sia sotto gli occhi di tutti, sopravvive un piccolo pezzo di storia legato alle pestilenze scoppiate in città, a partire da quella di San Carlo del 1576: parliamo del Fopponino di Porta Vercellina, fossa comune e poi uno dei principali cimiteri in città.
Si trovava dove oggi c’è piazzale Aquileia, di fronte al Carcere di San Vittore. Di lui rimane un maestoso ingresso fiancheggiato da statue monumentali dedicate rispettivamente ai santi Giovanni Battista (pilastro di sinistra) e Carlo Borromeo (pilastro di destra), dal quale si accede per raggiungere la chiesetta barocca a loro dedicata. Non distante, all’inizio di via San Michele al Carso si trova una graziosa cappellina votiva detta “dei morti”, costruita intorno al 1640, che contiene «un piccolo ossario a terra, con in vista alcuni teschi dei morti di peste, e un semplice altarino addossato alla parete di fondo». Incorniciato da un’edicola di stampo barocco e decorata da simboli sepolcrali, presenta sulla sommità un cartiglio con scolpito il monito «Ciò che sarete voi, noi siamo adesso, chi si scorda di noi, scorda se stesso».
La chiesa e la cappella è tutto quello che rimane di quello che è stato uno dei cinque cimiteri della città prima che venisse costruito il Cimitero Monumentale progettato da Carlo Maciachini nel 1867. All’epoca della peste di San Carlo Borromeo si trovava fuori le mura spagnole, nella zona di Porta Vercellina, dal quale il cimitero infatti prese il nome. La parola «fopponino», diminutivo del termine milanese «foppa» (fossa, buca e per estensione sepoltura), stava a indicare le fosse comuni che in Lombardia, a seconda delle dimensioni, venivano popolarmente definite «fopponini», «foppe» o «fopponi».
La storia di questo luogo inizia nel 1576, quando infuriava la peste, quando «per approntare fosse comuni dove far confluire i cadaveri degli appestati in luoghi fuori dalle mura della città, le autorità sanitarie destinarono quest’area alla sepoltura dei morti».
Qualche decennio dopo, durante la grande peste del Manzoni, al Fopponino venne annesso con gran celerità anche un lazzaretto, di notevoli dimensioni se si pensa che era in grado di ospitare 715 capanne per gli appestati e una chiesetta, di modeste dimensioni. «Alcuni studiosi lo citano con il nome di “S. Giovannino alla Paglia”, facendo così riferimento alla paglia su cui giacevano gli appestati». E a proposito della paglia con la quale venivano fatti i pagliericci, antenati poveri dei materassi, che ahimè non sempre era possibile cambiare ogni giorno come le regole sanitarie imponevano, Manzoni ci ha lasciato nei Promessi Sposi (capitolo XXXV) un’icastica descrizione di come si svolgeva la vita all’interno di questi ricoveri: «S’immagini il lettore il recinto del lazzaretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; […] e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi».
Nel decennio compreso fra il 1662 e il 1673, esattamente a cento anni di distanza dalla costruzione della nuova cappella del Lazzaretto di Porta Venezia, voluta da San Carlo, anche il nucleo primitivo della chiesa del Fopponino venne ampliato fino ad acquistare la fisionomia attuale, ricevendo l’intitolazione definitiva di chiesa di san Giovanni Battista e san Carlo Borromeo al Fopponino.
Con la fine delle pestilenze – l’ultima grande epidemia interessò Marsiglia nel 1720 e uccise il 50% degli abitanti, mentre l’ultima pandemia di peste è del 1855, e partita dalla Cina coinvolse alla fine del XIX secolo l’intero pianeta – tutta l’area venne riconvertita in un tradizionale cimitero, destinato ai defunti del territorio circostante. In seguito al divieto emanato nel 1786, con il quale viene introdotto per la prima volta il divieto di seppellire i defunti nelle parrocchie e all’interno delle mura cittadine, e per venire incontro alla necessità di individuare più ampie aree da destinare alla sepoltura degli abitanti dei neo costituiti Corpi Santi (una cintura di borghi e cascine che si trovavano attorno a Milano e che oggi ne fanno parte integrante), la Confraternita del Fopponino si rese promotrice dell’ampliamento del cimitero acquistando circa 12.000 metri di terreno dietro alla chiesa, annettendo così l’area oggi compresa fra le attuali via Paolo Giovio e via Andrea Verga.
Nel XIX secolo il cimitero si estese ulteriormente e in seguito all’annessione dei Corpi Santi al Comune di Milano avvenuta nel 1873, in concomitanza con l’apertura al suo interno del settore destinato ad ospitare il cimitero israelitico cittadino, arrivò ad estendersi e a comprendere l’odierna zona di via Ercole Ferrario. Nel 1882 il Fopponino, che nel frattempo era stato ribattezzato “Cimitero di Porta Magenta”, era diventato uno dei 5 cimiteri più grandi della città. Con l’inaugurazione del cimitero Monumentale (1866) e di Musocco (1887) il buon vecchio cimitero di Porta Magenta, dopo trecento anni di onorato servizio venne mandato in pensione e smantellato, mentre «la chiesa, con i locali della Confraternita, vennero adibiti ad Oratorio maschile dell’allora parrocchia di san Pietro in Sala».
In un dipinto di Angelo Trezzini, del 1869, «Al finir della scuola o Fopponino», della Collezione Cariplo, oggi esposto alle Gallerie d’Italia a Milano, si riconosce la facciata della chiesa barocca con il suo cortile brulicante di bambini; mentre sulla sinistra campeggia lo scomparso oratorio. Sopravvissuta alla furia dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale, la chiesa e la «cappellina dei morti» rappresentano un prezioso giacimento della memoria e ci ricordano quanto caro fosse il culto dei defunti in epoca barocca, e oltre. Un luogo dove tutt’ora, malgrado la piazza trafficata e il popoloso quartiere che gli è nato intorno, regala a chi ha la fortuna di varcare la soglia, un senso di pace che invita a raccogliersi e perché no, a scoprire un piccolo capolavoro del XVII secolo quasi dimenticato. Sul muro di cinta, all’interno, una lapide collocata nel 1990 dalla Fondazione Giuseppe Verdi ricorda che nel cimitero scomparso venne seppellita la prima moglie del grande maestro di Busseto, Margherita Barezzi, morta a soli 26 anni a causa di una encefalite.
A pochi passi da qui, dal 1964 (anno in cui venne inaugurata), si trova la nuova chiesa parrocchiale di San Francesco d’Assisi al Fopponino, progettata da Gio Ponti, e costruita sull’area precedentemente occupata dal cimitero. Considerata fra i massimi capolavori dell’architettura sacra del Novecento, è caratterizzata da una facciata rivestita in luminose piccole piastrelle “a punta di diamante” che pare un gioiello, scandite da otto aperture – nella simbologia cristiana l’8 richiama il messaggio escatologico e salvifico della vittoria di Cristo sulla morte terrena – “tagliate” come pietre preziose, da alcune dalle quali si può vedere il cielo. A pianta esagonale asimmetrica, è suddivisa in tre navate rette da due file di pilastri in cemento armato rastremati in prossimità delle travi del tetto a capanna. Come in tutti i suoi progetti, uno su tutti il Pirellone, qui Ponti realizza un’opera d’arte totale, firmando tutti gli arredi, le suppellettili sacre e persino le vesti liturgiche.
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via La peste a Milano: il Fopponino, la fossa comune della città
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