La prima volta che ho sentito parlare della Mongolia da mio nonno Louis avrò avuto sette o otto anni. Mio nonno era stato un soldato dell’esercito francese durante la Seconda guerra mondiale. Alla fine del 1944, in Germania, una fazione dell’esercito mongolo comandata dai sovietici lo liberò da un campo di prigionia. Mi ricordo le scintille che gli illuminavano gli occhi e le sue grasse risate nel raccontare come i tedeschi indietreggiarono – e, diceva lui, si ritirarono – nel vedere questi asiatici forti e feroci irrompere dentro il campo. Descriveva come i prigionieri di guerra francesi, americani e inglesi si abbracciarono tra loro euforici, grati ai loro salvatori mongoli. Immaginare una scena così emozionante da bambino mi ha lasciato un ritratto indelebile della Mongolia e dei suoi abitanti. Dopotutto, è a loro che devo la vita di mio nonno – e quindi anche la mia.
Anni dopo, poco più che trentenne, ho lavorato come assistente di un fotografo a New York per comprarmi un biglietto per Pechino e da lì con la Transiberiana andare in Mongolia, una terra lontanissima, senza sbocchi sul mare e quasi disabitata, stretta tra la Cina e la Russia. Sono arrivato a Ulan Bator alla fine dell’estate del 2001, e da lì mi sono diretto a ovest fino a Ulaangom, vicino ai Monti Altai. Il Paese era proprio come me l’ero immaginato: puro, con paesaggi sconfinati che includevano vasti deserti, maestose catene montuose e pianure verdi che sembravano non finire mai. E poi c’era l’enigmatico popolo mongolo, discendente dal leggendario Gengis Khan (1162–1227). Ho viaggiato in più di cento Paesi, e i mongoli sono uno dei popoli più calorosi e ospitali che abbia mai incontrato.
Mi sono accampato vicino a un piccolo lago che si chiama Üüreg Nuur, nascosto in una magnifica vallata. È lì che ho fatto le mie prime amicizie con i mongoli: una colonia di famiglie venute per l’estate. Ogni giorno mi permettevano di seguirli mentre andavano a caccia di marmotte a cavallo. Avere la possibilità di accedere in modo così intimo alla vita quotidiana di queste famiglie nomadi è stato incredibile.
Tornato a New York, ho guardato una mappa della Mongolia e ho capito quanto fosse limitata l’area che ero riuscito a coprire. La scoperta mi ha dato l’idea di un libro, che mi ha richiesto un tempo lungo ma felice di 17 anni. Ho fatto 13 viaggi in Mongolia. Ho provato ogni stagione, con la sfida di lavorare in un clima che cambia in modo così estremo. Scattare con la pellicola a meno 30 gradi si è rivelato complicato. La mia Pentax spesso si inceppava dopo pochi minuti all’aria glaciale. Mentre ero con i Tsaatan, i pastori di renne del nord, infilavo la macchina nel sacco a pelo, attaccata al corpo.
Certe mattine mi svegliavo con i capelli incollati dal ghiaccio al pavimento della tenda. Durante uno dei primi viaggi, un amico locale mi ha detto: «I mongoli sanno quando partono, ma non sanno mai quando arrivano».
Sentirglielo dire mi ha incoraggiato a vivere l’attimo e ad adattarmi a circostanze incontrollabili. Bufere di neve, una crepa in un lago ghiacciato mi hanno costretto a modificare le rotte semplicemente per sopravvivere. E una volta mollate le mie rigide aspettative occidentali le cose hanno iniziato a scorrere. I momenti di frustrazione hanno fatto nascere le occasioni per alcune delle foto più straordinarie.
E tuttavia, poco di quanto sono riuscito a portare a termine sarebbe stato possibile senza Enkhdul Jumdaan, guida, traduttore e oggi caro amico. Mi ha permesso di comunicare in tutto il Paese, dai Monti Altai al Deserto del Gobi orientale. Mongoli generosi come Enkhdul mi hanno aiutato a definirmi, come fotografo e come persona.
Mi hanno insegnato il significato della condivisione e della comunità, e instillato la capacità di apprezzare la bellezza mozzafiato della natura e una forma di rispetto e riverenza per il suo potere. «Fidati dell’ignoto» è un motto che ho cominciato a seguire anche nella vita.
La Mongolia ha così tanto da offrire ai viaggiatori, non solo a chi è in cerca di bellezza, ma anche a chiunque stia compiendo una ricerca spirituale, perché nel bel mezzo dei paesaggi vasti e maestosi troverà un forte richiamo al momento presente, cosa che pochissimi posti sulla Terra hanno il potere di fare.
Traduzione di Tiziana Lo Porto
Foto di Frédéric Lagrange
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