Himalaya, la mia casa

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 34 di Vanity Fair, in edicola dal 22 agosto al 29 agosto

Non sono molti gli stranieri che possono dire di conoscere l’Himalaya come Olivier Föllmi. Ma il fotografo autore delle immagini in queste pagine, un’autorità da almeno 20 anni nel fotogiornalismo geografico, padre svizzero e madre francese, in realtà tra le montagne più alte e celebrate del mondo non è uno straniero. «40 anni tra i buddisti» è il sottotitolo di My Himalaya, il libro in cui ha raccolto quasi mezzo secolo di luoghi, incontri, storie di questo mondo estremo il cui nome in sanscrito significa «dimora delle nevi».

L’Himalaya è in India, ma anche in Cina, Nepal, Pakistan e Bhutan, e Föllmi lo ha percorso tutto, ci è anche andato a vivere, ha partecipato a decine di riti segreti e incomprensibili, ha conosciuto la gente dei villaggi più isolati, i cui ritratti sembrano tanto intimi e familiari perché sono davvero i suoi amici di lunga data, compagni di villaggio, vicini di casa. E sono diventati famosi, loro che dalle valli impervie non si sono mai mossi se non per le imprese invernali, partire per attraversare in fila indiana passi così ripidi e gelati che solo a guardare le foto hai una vertigine. Non credi sia possibile per nessuno sfidare così la forza di gravità e arrampicarsi a piedi sui «sentieri di ghiaccio» come il fiume Zanskar.

Normale che anche il fotografo abbia assorbito qualcosa della spiritualità di queste montagne, le cattedrali naturali della filosofia buddista e casa del Dalai Lama. È lui, da sempre, il migliore e forse unico ambasciatore internazionale per un popolo dalla vita non facile e dalla sopravvivenza culturale sotto attacco costante: a quasi 60 anni dalla rivolta del 1959, repressa nel sangue, contro l’occupazione cinese del Tibet nel 1950, la pressione di Pechino resta fortissima. Dal 2009, dice l’Associazione Italia-Tibet, in 152 si sono dati fuoco per attirare l’attenzione, in una sostanziale indifferenza generale. E il duello ormai perenne come queste nevi tra Pechino e Nuova Delhi per lembi di Himalaya strategici come l’altopiano di Doklam, al confine tra Bhutan, Sikkim (India) e Tibet (Cina), è sempre più armato: a gennaio di quest’anno le immagini satellitari hanno rivelato che entrambi gli Stati ammassano soldati e armamenti nell’altopiano.

La guerra silenziosa tra gente che aspira alla pace, anche interiore. I capitoli di My Himalaya si chiamano Saggezza, Karma, Impermanenza (concetto che indica uno dei tre aspetti fondamentali dell’esistenza nella dottrina canonica del buddismo), Interdipendenza e Compassione. Ma anche se inframmezzata da frasi di saggi tibetani, la storia di Föllmi, oggi sessantenne, secondo Times Magazine uno dei 15 migliori fotografi del mondo, appassiona non solo chi si interessa al buddismo o alla causa tibetana, ma anche chi ama semplicemente la montagna, i trekking (i più estremi possibili si fanno qui, tra lastroni di ghiaccio trasparente su cui cammini come sopra un vetro) e le leggende di un popolo d’alta quota che non somiglia a nessun altro.

«Non so spiegare perché per tanti anni il mio karma mi ha portato così vicino alle valli tibetane dello Zanskar», dice, «qui dove il tempo si è fermato ho passato molto tempo, mi sono fatto degli amici nel mio primo viaggio con Lobsang e Dolma, una coppia di giovani contadini che avevano tre campi di orzo da coltivare, due yak, dieci capre e un cavallo. Il loro figlio, Motup, aveva tre anni e sua sorella Diskit solo un anno. Per diverse estati io e Lobsang abbiamo percorso insieme su e giù le valli dello Zanskar. Una sera, eravamo seduti nel nostro accampamento sotto le stelle, ho detto a Lobsang, che non sapeva né leggere né scrivere, che avrebbe dovuto mandare Motup a scuola». «Se i nostri sentieri si sono incrociati così, Olivier, è perché abbiamo diviso la stessa famiglia in una vita passata. Prendi la decisione giusta per Motup, io mi fido di te. Così ho preso il bambino, che aveva otto anni, e l’ho portato attraverso le montagne per raggiungere la scuola più vicina, la Lamdon Model School, in Ladakh, a 145 chilometri dallo Zanskar. Avevo 20 anni e nemmeno un centesimo per finanziare i suoi studi.

Andò bene, Motup rimase nella scuola come residente: non poteva tornare a casa perché le vacanze sono in inverno, quando i passi che collegano lo Zanskar al resto del mondo sono bloccati dalla neve. Ma una sera, alla luce della lampada alimentata a burro, decidemmo di portare Motup a casa per le feste. L’unica strada in inverno è il fiume gelato che si getta in un canyon lungo 96 chilometri. Lo percorri in sei giorni ma anche quindici, secondo lo stato del ghiaccio. Nel gennaio del 1988, nel cuore dell’inverno, mia moglie Danielle e io lasciammo le nostre vite confortevoli e partimmo con Lobsang, Motup e dieci portatori arrivati in jeep dal sentiero terribile lungo il fiume Indo fino alla foce dello Zanskar. La nostra avventura stava per cominciare. Per oltre vent’anni abbiamo cresciuto Motup e Diskit come figli nostri, viaggiando ogni anno per mostrare loro il mondo e poi riportarli ai loro genitori nello Zanskar. Oggi parlano varie lingue e hanno una compagnia di trekking in Ladakh. Si sono sposati in Himalaya circondati da tutto il villaggio, una grande festa tradizionale. E noi, i quattro genitori, abbiamo ballato insieme intorno al palo di legno centrale che tiene la casa: simboleggia il pilastro dell’universo».

L'articolo Himalaya, la mia casa proviene da VanityFair.it.



from Traveller – VanityFair.it https://ift.tt/2oaXhGH
via Himalaya, la mia casa

Commenti