Fondata nel 1964, primo tour operator a portare in Italia la formula del «villaggio turistico» inventata dai francesi di Club Med, dopo diverse vicessitudini, debiti e passaggi di proprietà, Valtur annuncia la chiusura. La società il 29 marzo ha aperto la procedura di licenziamento collettivo per i 108 dipendenti a tempo indeterminato e 123 a tempo determinato, e sta negoziando la restituzione delle singole strutture ricettive. Ma il Ministero per lo sviluppo economico (Mise) annuncia che sono già arrivate richieste di informazioni da parte di imprenditori, italiani e stranieri, interessati a rilevare il marchio e la gestione dei villaggi nel complesso. È finito il mondo dei villaggi turistici, come ipotizzano molti viaggiatori, da sempre ostili all’idea del «mondo chiuso» del villaggio, che tra gestione, clientela e cucina, offre una vacanza italiana (e autarchica) «trasportata» all’estero? Tutt’altro.
In realtà il «villaggio turistico» è un modello ancora vivo e vegeto e il «villaggista» rappresenta, per grandi gruppi come Alpitour, diversificati al massimo nell’offerta di viaggio, il 20 % della clientela (e di fatturato). Anzi, è un settore in crescita, del 15% rispetto all’anno passato, sempre secondo i dati di Alpitour. «Con la crisi delle agenzie degli ultimi anni in concomitanza con la possibilità per i viaggiatori di prenotare da sè le proprie vacanze, i tour operator si sono concentrati sull’offerta di un prodotto che ha un valore aggiunto. E la formula villiaggio rappresenta il più completo di questi prodotti», dice Gianmaria Patti, brand manager di Bravo Club, marchio di villaggi del Gruppo Alpitour che conta 25 villaggi in due brand diversi in tutto il mondo.
Perché piacciono i villaggi
«I villaggi hanno un “contenuto”», continua Patti, «la cucina, gli spettacoli, l’accoglienza dedicata per i bambini e quindi alle famiglie, un vasto programma di attività, ma gli elementi fondamentale nel successo del villaggio sono l’aspetto emozionale, che è quello che rende la vacanza indimenticabile, e la possibilità di coinvolgimento sociale. Entrare a far parte di un “gruppo”, fare con loro esperienze, è sempre stato il vero punto di forza. La gente che in una vacanza tradizionale non sempre riesce a conoscere altre persone, in un villaggio trova la condivisione che gli manca, così invece chi è facile alla socializzazione trova il suo pubblico naturale». Ma non solo, molti clienti amano anche avere certezze, la sicurezza di trovare i propri ancoraggi: il «pasta corner» è sempre fondamentale in ogni villaggio.
La vacanza senza pensare a nulla (sì a volte anche senza quasi sapere dove). Secondo Tommaso Bertini, Direttore Marketing e Comunicazione di Eden Viaggi, la forza del villaggio per le famiglie sta sicuramente nella possibilità di avere un luogo comodo e sicuro dove portare i bambini e nell’avere un’animazione dedicata a tutta la famiglia. Ma non solo per le famiglie «per molti dei nostri clienti è più facile andare in un posto dove si parla italiano e dove per ogni difficoltà si può avere assistenza». Come dice lui il villaggio è percepito per molti come «avamposto sicuro».
Le origini: sea, sex and sun
68 anni precisi ma mille miglia lontani dalle origini del «villaggio», nato esattamente nel 1950, quando il produttore di tende francese Gilbert Trigamo, insieme al campione di pallanuoto belga Gérard Blitz, apre a Maiorca il primo Club Méditérranée: duecento tende in spiaggia senza acqua ed elettricità, tavolate comuni e l’obbligo di darsi del tu per tutti (anche con il personale). Erano gli anni dopo la Guerra (in cui Trigamo aveva fatto parte dei giovani della Resistenza) e c’era bisogno di leggerezza, di libertà. I Club Med, che all’inizio sono veri e propri club, in cui paghi una quota annua per usufruire di tutti i servizi, inventano la vacanza senza pensieri, quella del «tutto incluso», quella dell’animatore – il GO, il Gentil Organisateur, che si occupa di ogni bisogno – e quella che presto verrà chiamata ufficiosamente la «vacanza delle tre s»: sea, sex and sun. L’elogio della libertà, che paradossalmente si è trasformato dagli anni Novanta nel suo contrario, nella vacanza «inscatolata» e «pre-ordinata». Ha tenuto saldo però l’aspetto della pausa senza pensieri, di vero risposo e svago, il motivo che ancora fa sì che i villaggi siano così amati.
E allora perché ha fallito Valtur? Più per cause “endogene” che “esogene”. «Ci sono cause finanziarie, ma forse è mancata anche innovazione», commenta Gianmarco Patti di Alpitour, «Il sistema di sviluppo di Valtur, che prevedeva la propietà dell’hotel, da un certo punto di vista è positivo perché controllando gli hotel controlli i servizi, ma non ti permette di essere reattivo dal punto di visto dell’ampliamento delle mete. Noi, grazie a una gestione che prevede accordi commerciali con hotel di propietà e gestione di altri, siamo più veloci, apriamo nelle mete di moda, in Thailandia, in Oman. Nell’anno chiave dell’apertura del turismo a Cuba abbiamo aperto in un batter d’occhio due nuovi villaggi sull’isola. Poi la parte social oggi è fondamentale. Abbiamo pagine molto seguite e follower molto attivi, che non solo creano gruppo tra di loro, ma vogliono sapere dove troveranno nel corso dell’anno i loro capovillaggio preferiti». Tra tutti i cambiamenti, una cosa forse non tramonterà mai: il GO, animatore, o capovillaggio che sia, continuerà a infrangere cuori.
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via Valtur chiude. È la fine dei villaggi turistici? Tutt’altro, «offrono la socialità che ci manca»
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