Cina segreta: alla scoperta della provincia del Gansu

(credits by GTDC)

Cina, così sconfinata e antica, mastodontica nelle sue dimensioni oceaniche e nelle sue radici, che affondano fino agli albori delle prime società umane, eppure sempre minuta, discreta, come un volto di donna velato dal mistero, desideroso di farsi ammirare, ma sempre a poco a poco.  Tra questi tesori c’è la provincia del Gansu, nel nord della Cina: tanto grande che potrebbe contenere dentro sé Italia e l’Austria, così antica da essere intimamente legata alla civiltà umana sin dagli albori della storia: qui i primi ominidi vivevano oltre 600mila anni fa, qui si sviluppò una delle prime civiltà agricole dell’antica Cina, ben seimila anni prima di Cristo.

Racchiuso tra Mongolia, deserto del Gobi e altopiano tibetano, il Gansu è stato per secoli passaggio obbligato delle carovane che, lungo la Via della Seta, trasportavano uomini, merci, idee e credi da una parte all’altra del globo. Uno scambio culturale e umano, che ha lasciato tracce importanti che si rivelano nella presenza di antiche minoranze etniche, come gli Hui, discendenti degli antichi cinesi convertiti all’Islam, o i tibetani, nella parte più meridionale della provincia. Ed è proprio verso sud, risalendo le pendici dell’altopiano tibetano, che si snoda uno degli itinerari più affascinanti dell’intera regione, quello che dalla capitale, Lanzhou, arriva fino al piccolo Tibet del Gansu, la prefettura cinese del Gannan: un viaggio alla scoperta dei luoghi in cui vivevano le antiche popolazioni nomadi tibetane, tra vaste praterie in quota, monasteri buddisti arroccati a qualche migliaio di metri sul livello del mare e tradizioni  che resistono al tempo, nonostante la globalizzazione.

 

DA LANZHOU A LINXIA: INTERMEZZO ISLAMICO

 

Muovendosi verso il piccolo Tibet del Gansu, tra le fertili colline gialle formate da depositi di sabbia del deserto e l’arenaria rossa delle alture che punteggiano il territorio, la città musulmana di Linxia – siamo a 1890 metri d’altitudine e a due ore d’auto dalla capitale Lanzhou – è un passaggio obbligato per arrivare nel Gannan. Conosciuta anche come la piccola Mecca cinese, Linxia è un vero melting pot di cultura islamica: agli Hui, componente maggioritaria della popolazione urbana, qui si affiancano altri gruppi etnici minoritari, sempre di cultura islamica, tra cui i Dongxiang, eredi delle antiche popolazioni mongole, e i Salar, musulmani turcofoni. Per vedere qualche bella moschea e farsi ipnotizzare dal canto del muezzin che richiama i fedeli alla preghiera, basta dirigersi a ovest del centro, nel vecchio quartiere musulmano: tra le decine di moschee  primeggia, per importanza e bellezza, la Moschea Nanguan, costruita durante la dinastia Yuan (1271-1368), con uno stile che unisce caratteri dell’architettura islamica a elementi architettonici cinesi.

Tra i templi e le strade polverose della parte commerciale della città troviamo invece variopinti mercati di strada, carretti ricolmi di frutta e verdura trainati a mano, negozietti di carne halal, macellata cioè secondo i precetti dell’Islam, e ristorantini dove si preparano i lunghissimi lamian, pronipoti dei più antichi spaghetti del mondo. Vale la pena fermarsi in uno di questi piccoli ristoranti e assaggiare il sincretismo culinario di questa parte di Cina: metodi di cottura tipicamente pechinesi, ingredienti classici della cucina del nord, divieto assoluto del maiale e un sapiente uso di spezie tipiche della cucina musulmana. Oltre ai lamian, solitamente serviti con brodo e carne di pecora o di montone, magari aromatizzati al coriandolo e accompagnati con il Suan cai, cavolo cinese fermentato alla maniera dei crauti tedeschi, si possono assaggiare piatti tipici come agnello spolverato di cumino o il kebab arrotolato nel Nang, il tipico pane azzimo al sesamo.

 

DA LINXIA A HEZUO: IL TIBET FUORI DAL TIBET

 

La strada che da Linxia conduce fino a Hezuo, capoluogo del Gannan, attraversa un bel paesaggio di colline ricoperte da salici e pioppi, vallate e campi coltivati a patate, mais e colza, e ovunque si ergono altissimi i pinnacoli di moschee dalle cupole d’oro e cobalto. Sullo sfondo, in lontananza, si stagliano le cime degli impenetrabili Monti Qilian. È su questa strada che si varca il confine immaginario tra la cultura islamica e quella tibetana: man mano che si scende a sud e si sale di quota le moschee diventano sempre più rare e i cartelli stradali iniziano a parlare cinese e tibetano: si disvela così un piccolo angolo di Tibet  – che tanto piccolo non è, basti pensare che il Gannan ha una superficie maggiore di quella del Belgio – una terra di mezzo dove la maggioranza della popolazione è tibetana e l’altopiano inizia a modellare il paesaggio e la vita dei suoi abitanti, con città e praterie che sorgono a oltre 3000 metri sul livello del mare e i volti di chi le abita sono scolpiti da millenni di vita nomade e condizioni geografiche e climatiche estreme.

Se a Hezuo è consigliata una tappa all’imponente monastero buddista costruito nel XVII secolo, è soprattutto fuori dalla città che vale la pena fermarsi: a pochi minuti in auto dal monastero troviamo le Dangzhou, verdissime praterie in quota circondate da cime arrotondate, creste, pendii scoscesi e stupende vallate percorse da mandrie di yak al pascolo. Qui c’è un campo con alcune tende dove provare l’ebbrezza di vivere come in un vecchio accampamento nomade: portare gli animali al pascolo, mangiare le tipicità della cucina tibetana e addormentarsi nelle tradizionali tende tibetane, le yurta, non prima di avere fatto festa, cantando, danzando e bevendo grappa d’orzo davanti al fuoco, sotto le stelle, che qui, complice la qualità dell’aria e l’altitudine, sono uno spettacolo indescrivibile. E poi risvegliarsi al mattino con una colazione con tè salato al burro di yak accompagnato con polpettine di tsampa, piatto nazionale tibetano a base di farina d’orzo, e con le giuste energie partire per un trekking – a piedi o a cavallo – nelle sterminate praterie a 4000 metri d’altezza, costellate di piccoli laghetti alpini e popolate da lupi, orsi ed emioni tibetani.

 

DA HEZUO A XIAHE: NEL CUORE DEL GANNAN

 

Dalle praterie di Hezuo arriva a Xiahe percorrendo una bella strada panoramica, che corre verso nord-ovest per una sessantina di chilometri. La città di Xiahe, piccolo e raccolto avamposto tibetano, si sviluppa lungo le sponde del fiume Daxia, affluente del grande Fiume Giallo. Il suo cuore pulsante, quello in cui è possibile fare gli incontri più particolari, si sviluppa tra il monastero Labrang e l’arteria principale della città, Zhaxiqi Street, che è tutto un susseguirsi di botteghe artigiane e negozi improvvisati, dalle esposizioni di bellissimi coltelli artigianali (attenzione però, la legge cinese non permette l’esportazione di coltelli oltre i 6 cm) ai venditori di yartsa gunbu, il fungo-larva dalle virtù afrodisiache, direttamente sui marciapiedi. Ci si ferma, si contratta, si assaggia la mercanzia, il tutto tra sorrisi, pacche sulle spalle e grande curiosità, da una parte e dall’altra. Sono in pochi quelli che parlano inglese: con gli anziani, guardiani della tradizione, che spesso parlano solo tibetano, si comunica a gesti, mentre i giovani bilingue, fieri delle proprie origini ma attratti dalla modernità e dal soft power che offre il Dragone, comunicano abilmente con il traduttore dello smartphone. I volti delle donne, spesso nascosti da foulard nerissimi, simili a mascherine da chirurgo, lasciano viaggiare gli sguardi in direzione del Laowai, lo straniero, che in questi luoghi remoti della Cina rurale desta ancora molta curiosità.

E poi i monaci. A decine, centinaia, passeggiano con le inconfondibili tuniche rosso amaranto dentro e fuori Labrang, uno dei sei monasteri tibetani più grandi dell’intera Cina, vero polo d’attrazione della città, sia per i turisti venuti fin quaggiù alla ricerca di un assaggio di Tibet e spiritualità, sia per la moltitudine di pellegrini, che sin qui arrivano per pregare davvero. Così migliaia tra monaci e pellegrini vivono ogni giorno fuori e dentro le mura del monastero: di giorno è un viavai di persone intente a pregare e a seguire i propri affari, tra i templi e le bancarelle di frutta, farina e tè. Di sera cala il silenzio e si odono solo i cigolii delle Kora, le ruote della preghiera, girate rigorosamente in senso orario, e i mormorii appena sussurrati dei fedeli.

LA CUCINA TIBETANA

 

Ricca di calorie per contrastare il rigido freddo invernale, quella tibetana somiglia molto alle cucine dei popoli nomadi degli altopiani asiatici: è una cucina semplice, montana, a predominanza di carne d’alto pascolo, in particolare montoni, yak e capre, che offrono anche la materia prima per una grande varietà di prodotti caseari: dal burro ai formaggi agli yogurt. Il cereale principale è l’orzo, con cui si prepara la Tsampa, farina d’orzo tostato che serve per le varie preparazioni tipiche, dalla pasta nei formati più diversi alle classiche polpette, zuppate nel classico tè tibetano con burro di yak e sale o nella zuppa di brodo di yak, la Tsam-thuk, servita con formaggio e talvolta noodle. Altro classico sono i momo, ravioli di farina d’orzo cotti al vapore e riempiti di carne e scalogno, zenzero o coriandolo. E per chi vuole osare ci sono le Gyurma, salsicce simili al nostro sanguinaccio, preparate con sangue di yak e accompagnate dal Tingmo, pane cotto al vapore, e dalla Chhaang, una sorta di birra d’orzo a bassa gradazione servita calda o a temperatura ambiente.

SE SI HA QUALCHE GIORNO IN PIÙ

 

L’itinerario proposto si può tranquillamente fare in una settimana, prendendosela con calma e dedicando anche uno o due giorni alla visita della capitale Lanzhou. Il giro proposto può essere parte di un viaggio in Cina più articolato, che comprenda anche qualche giorno a Pechino o Shangai, da cui giornalmente partono voli diretti per Lanzhou. Con a disposizione due giorni in più si consiglia caldamente una visita alle tre gole del fiume Giallo, poco a sud di Lanzhou, dove sorge uno dei luoghi più evocativi del Gansu, le Bǐnglíng Sì shíkū – grotte del Tempio Bingling – 34 grotte e 149 nicche scavate nella roccia che ospitano centinaia di sculture, oltre a una statua gigante di Maitreya, il Buddha del futuro. Le grotte sono raggiungibili esclusivamente via fiume con barche che partono, in estate e autunno, dalla diga di Liujiaxia, superano il lago e si addentrano nella zona dei canyon. Con altri due o tre giorni a disposizione si può arrivare fino alla contea di Maqu, l’ultima propaggine sud-occidentale del Gannan prima di entrare nelle province del Sichuan e del Qinghai, a tre orette d’auto da Xiahe. Qui davvero pare di essere in Tibet: 3700 metri l’altitudine media, 6 abitanti per kmq, con i Monti Qilian che arrivano quasi a sfiorare i 6000 metri. Da ammirare in questo splendido scenario naturale vi sono le enormi praterie alla prima curva del Fiume Giallo, uno degli ultimi habitat dell’Hequ, piccolo cavallo locale in grado di resistere in ambienti carenti di ossigeno, mentre ancora più a sud, nel territorio compreso tra il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro, ci s’imbatte nelle più alte paludi del mondo, le paludi Zoigê – Ruòěrgài Shīdì – un vasto altopiano costellato da laghetti e paludi, circondato da alte vette innevate e abitato dai nomadi e dalla gru tibetana, animale simbolo di questi incredibili luoghi.

 

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