Bolivia: deserti di sale, lagune cangianti e miniere

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I picchi innevati dei vulcani che sfidano il cielo azzurro sono fari nell’immensa distesa bianca del Salar de Uyuni, il deserto di sale più spettacolare ed esteso del pianeta (10 miliardi di tonnellate), incastonato tra le Ande all’estremo sud della Bolivia. Un oceano candido creato dall’evaporazione di un gigantesco lago preistorico, il Minchin, disegnato a cristalli esagonali dalla mano capricciosa della natura: 11 mila chilometri quadrati a quasi quattromila metri di quota, punteggiati da pinnacoli e piccole piramidi dai nomi simbolici (Montones de sal, Bloques de sal…). Questo è il regno abbacinante degli indios Chipaya. Sarebbero loro i discendenti degli abitanti delle steppe che, dall’Asia centrale, attraverso lo stretto di Bering, approdarono sul continente americano 30-40 mila anni fa. Ancorati a tradizioni antichissime, ripetono gesti secolari: armati di pale e picconi tagliano la superficie in grossi cubi, frantumandoli poi per ricavarne sale purissimo. Che non è, però, l’unica ricchezza di questo luogo da alba del mondo. Qui si trova anche più di un terzo delle riserve di litio del pianeta, l’oro grigio indispensabile per fabbricare le batterie ricaricabili. La Bolivia ne è il maggiore produttore mondiale.

IL SLAR DE UYUNI, IL DESERTO DI SALE

L’oceano ha le sue insidie, come gli ojos de salar, buchi nella superficie salata da dove esce acqua: per la luce intensa non si vedono e ci si può sprofondare. E ha le sue oasi e le sue isole. Come Incahuasi, un miraggio di lava nera, con una foresta di cactus (Trichocereus), alti anche più di dieci metri e vecchi perfino di mille anni, ingentiliti da fiori giganti.
Il Salar è l’avamposto per raggiungere meraviglie come la Laguna Colorada, dalle sfumature rosse, fucsia, viola, colonizzata da migliaia di fenicotteri che volano in nuvole rosa, e la Laguna Verde, immenso smeraldo incastonato tra le montagne. L’acqua cambia a seconda delle ore e della luce: a volte è verde blu, poi giada, ma anche azzurra, quasi trasparente. Il vento la polverizza in pulviscoli d’argento, che volano sulle rive.
Sullo sfondo, la montagna perfetta: il vulcano Licancabur (5.920 metri), dal cono così regolare da sembrare disegnato. Nel cratere c’è un lago dai colori incredibili. È il premio per chi ha la forza di arrampicarsi. Per l’ascensione ci vogliono due giorni di cammino. Ma lo spettacolo è unico.

IL TESORO PERDUTO DI POTOSÍ

L’altro tesoro boliviano è Potosí, a sette ore di viaggio, consegnata al terzo millennio nella sua solitaria bellezza. “Vale un Potosí”, dice il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes per indicare un patrimonio smisurato. Oggi non c’è traccia di quell’argento che, nel Seicento, la fece diventare la città più importante del Sudamerica. Ma la febbre di ricchezza è ancora alta. Basta inoltrarsi (con guida) nella miniera della Candelaria Baja, nel Cerro Rico. Qui uomini e donne scavano e sgretolano pareti, in condizioni di lavoro medioevali. Un girone dell’inferno. Per sopportare la fatica masticano foglie di coca. Il bottino è sempre magro: oggi trovano solo stagno o zinco.
In fondo ai cunicoli, c’è una statua in pietra alta circa un metro, abbigliata con stoffe rosse. È il Tio, venerato dagli indios Quechua dalla notte dei tempi. Mezzo dio, mezzo demone, barbuto come uno spagnolo, porta due grandi corna e un serpente attorno al collo, simbolo di fortuna. Gli offrono foglie di coca, gli mettono tra le labbra una sigaretta: se la fumerà tutta sarà una buona giornata, si troverà stagno. E – perché no – un po’ di quell’argento che ha fatto grande Potosí. I segni del passato coloniale, che ha valso alla città la protezione dell’Unesco, si scoprono passeggiando tra calli come la Quijarro, con le curve a gomito per impedire l’ingresso ai venti freddi, che a quattromila metri si fanno sentire, tra portali imponenti decorati da stemmi nobiliari, balconate in legno, facciate decorate, patii ombreggiati.

ULTIMA TAPPA A SUCRE

Infine Sucre, capitale costituzionale, anch’essa protetta dall’Unesco, costruita tra il XVI e il XVII secolo. Orgogliosa dei suoi palazzi e delle chiese, tutti rigorosamente candidi in una sorta di barocco indio, e della sua via dei caffè, dove si affacciano locali aperti fino a tarda notte. Davanti alla chiesa di Santo Domingo le anziane indios vendono aguayo e axu antichi, le stoffe rettangolari che le donne utilizzano come gonne. La terrazza del convento di San Filippo Neri è il palcoscenico più spettacolare di Sucre. Da qui lo sguardo spazia sulla miriade di cupole, tetti, giardini pensili. In strada, i suonatori di charango riempiono la notte a ritmo di huayño, la popolare melodia andina. Tutta la città sembra levarsi in volo. Verso i deserti di sale, le lagune colorate e le cime delle Ande.

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