Ultimo capitolo dell’emozionante avventura in Colombia dei nostri collaboratori. Il loro racconto di viaggio, con toni onirici, tratta temi importanti come il turismo sostenibile e il perchè viaggiamo. Buona lettura! Hasta pronto, Colombia!
“Presto! Presto! Le trote stanno rimanendo senza acqua”
Carlos molla la conversazione e sale il crinale erboso come fosse uno stambecco. Inizia a chiamare, a urlare verso il nulla, verso le colline. Ogni cinque passi grida “Oheeee, oheeee” e continua a salire. Si sente una flebile voce arrivare da monte. Carlos, esasperato, “El agua!!! No hay agua!!!”
Abbassiamo lo sguardo verso le cinque fosse che ospitano le trote. L’acqua è piuttosto bassa ma se viene ripristinata in tempo, i pesci hanno qualche speranza.
Due giorni prima ci mettiamo in movimento da Higuita (nome di paese inventato) verso Bogotà in chiva, bus coloratissimi con lunghe panche che possono ospitare persone, mercanzia e animali. Viene chiamata anche escalera per via del gradino che si usa per montarci su.
Si tratta di un mezzo di trasporto molto tipico in quella parte di continente americano anche se sta cadendo in disuso, sostituito da normali bus, più maneggevoli. Le chiva, come i treni a vapore, le carrozze, e le gondole hanno una seconda chance grazie ai turisti che ne vivono la parodia.
Con calma stiamo finendo il viaggio ma c’è un altro luogo che vogliamo visitare prima di tornare in Italia. Preparando il viaggio in Colombia ho passato ore al pc, investigando siti e forum. Io mi occupavo dell’itinerario mentre Giorgia prendeva i contatti con i progetti sociali che intendavamo conoscere. Quando ho scoperto la vallata di Capulla (nome di paese inventato), un posto menzionato solo di sfuggita in quanto ancora difficilmente raggiungibile, mi sembrava essere come Paperon De Paperoni quando scopre una mappa di qualche tesoro. Invece degli occhi coi dollari a me vengono gli occhi con le palme. Solo che, ora, a scriverne, si pone un problema.
Le storie si sviluppano sempre alla stessa maniera. Paperone raggiunge con i nipoti questi luoghi tribali, bellissimi, incontaminati e puri, e, dopo peripezie in cui viene a contatto coi nativi, scova finalmente il tesoro. Solitamente si sente in colpa nel depredare le ricchezze altrui e con slancio imprenditoriale pensa di sfruttare turisticamente le meraviglie del luogo. I nativi intristiti pregano Paperone di non portare il turismo di massa da loro altrimenti rovinerebbe l’identità e l’autenticità della comunità. Di solito Paperone accetta e gli autoctoni in cambio donano un diamantone da 1 biliardo di dollari o un altro oggetto di immenso valore cosicchè Paperone se ne va contento. The end.
Per questo motivo ho usato nomi fasulli per due paesi qualche riga più su.
Il giornalista o travel blogger che sussurra (a migliaia di potenziali lettori) i posti più autentici e incontaminati, inevitabilmente ne svela fatalmente l’esistenza mentre la bellezza sta proprio nel fatto che di visitatori non ce ne siano.
Raggiungiamo Capulla, un paesino a 1700m, circondato da montagne dolci, verdi e tropicali. La piazza centrale non è così animata come siamo stati abituati finora. Prima di prendere alloggio andiamo a vedere un paio di strutture una delle quali particolarmente orrida. E si trova pure in pieno centro. Ne ho viste parecchie di guesthouse pulciose da 3 dollari in questi anni di zaino in spalla e questa fa parte di quelle che oltre a fare schifo hanno pure un certo fascino. Decadente come la famiglia che lo gestisce. Si percepisce l’odore della muffa sui muri e degli asciugamani fatti asciugare male. Le figlie giocano nella penombra di una scala che da su un cortiletto interno pieno di ferraglia e altri oggetti buttati lì a caso a marcire. Nelle stanze quando si accende la luce si può percepire gli insetti che riparano in qualche cantuccio. Tutto l’edificio ha l’aria stanca e unta come fare un bagno in una vasca di olio esausto dopo una giornata passata in mezzo ai campi a raccogliere tabacco.
Andiamo poco più in là, in un hotel a gestione familiare con moquette psichedelica ovunque. Per raggiungere il luogo segreto che chiameremo La Romelia, occorre prendere l’unico bus della giornata che parte alle 6 e ritorna alle 2. La strada è contorta, lunga e dissestata. Il paesaggio prevede bosco andino, piccole vallate, colline costellate di palme dal tronco lungo e nessuna anima viva fino a La Romelia, a 2800 metri slm. Il paesino è praticamente disabitato, le case sono basse e l’atmosfera è un misto tra far west e gli Appennini. Ci fermiamo per un caffè in un bar con mobilia anni 70, scambiamo due chiacchere e scopriamo che il luogo dove dobbiamo arrivare rimane a 5km più a est.
Ci incamminiamo lungo la strada sterrata e dopo un po’ sentiamo arrivare una furgoncino. Quasi non serve tirar fuori il pollice per chiedere un passaggio. Il tipo alla guida è contento di farci montare e di portarci nella sua finca. Alleva trote, coltiva qualche campo e possiede dei pascoli proprio nella vallata conosciuta ancora da pochi per la sua bellezza estrema. In questa vallata, grazie ad un microclima particolare, protetta dalle colline circostanti che creano una specie canyon ma di ampio respiro, la natura si è espressa così bene che non si può far altro che sedersi in un buon punto e ammirarla estasiati.
La finca si trova su un piccolo promontorio, accerchiata da pareti erbose. Il lato nord è l’unico scoperto e si riesce a scorgere come il paesaggio nel suo abbassarsi di quota regali dolci curve verdi fin dove l’occhio riesce a vedere. Appena sceso dal furgone, Carlos saluta la moglie che sta sistemando l’orto. Chiacchieriamo un po’ mentre scendiamo verso le piscine per le trote. Le alte palme come lampioni tropicali ci guardano dall’alto.
Quì avviene la scoperta clamorosa che l’acqua delle trote sta finendo. Carlos corre via nel tentativo di risolvere il mistero dell’acqua. Sembra che la soluzione si possa trovare al di là di un doppio crinale che vediamo issarsi. Nel lasciarci, Carlos ci dice di salire la collina alle nostre spalle e di perderci nel verde.
Dopo una breve salita raggiungiamo uno dei punti più alti della vallata de La Romelia.
Appena stiamo per scorgere cosa c’è al di là dell’ultimo passo, prima di raggiungere la cima, proprio quando stiamo per scavallare, una luce bianca accecante ci costringe a chiudere gli occhi. Con le braccia ci copriamo la vista ma il bianco lucente si insinua ovunque, colpisce nella testa e striscia nei nostri pensieri. Da dietro le retine sentiamo che la luce spinge perchè gli occhi stiano aperti. E’ una forza che non si può contrastare e alla fine non resta che aprire le braccia e lasciarsi indondare dalla vastità bianca lucente. Camminiamo nella luminosità, fluttuanti, senza paura di cadere. Nessun suono attorno. In quel clima rarefatto e puro, privo di qualsiasi connotazione geografica, sembra vagamente di essere in una di quelle mattine nebbiose nella bassa padana. Una nebbia splendente. Ci sediamo e facciamo qualche foto.
Contempliamo.
Dopo un tempo indefinito compare un campesino a cavallo. La sua figura esce dal bianco e si fa via via più evidente man mano che si avvicina. Ha i tratti somatici di coloro che precedono l’arrivo dei conquistadores europei. Con un sorriso serafico si presenta. Il campesino è il custode di quel luogo.
“Perchè siete venuti proprio quì?”
Diamo le nostre risposte.
“Cosa vi spinge ad allontanarvi dai vostri luoghi natii?
Diamo le nostre risposte.
“Che avete fatto in tutti questi anni?”
Rispondiamo.
Il campesino si avvicina e ci mette al collo un rosario fatto di chicchi di mais. Al posto della croce, una spiga.
“Lasciate aderire questa collana alla vostra pelle per due notti. La mattina del terzo giorno, sarà scomparsa alla vostra vista. Da allora, ci vedrete di più”.
Rimonta a cavallo e scompare di nuovo nella luce. La nebbia bianca si alza, cominciando a far intravedere i colori. Tutto si mette a fuoco. Attorno a noi la vallata de La Romelia che finalmente si lascia vedere.
Quando torniamo alla finca, Carlos sta lavandosi gli stivali con la canna dell’acqua.
“Siete stati via molto, chicos! Vuol dire che siete riusciti a vederla. Io è molti anni che non riesco più. Mio figlio ancora ci riesce”.
Noi lo guardiamo un po’ imbarazzati.
“Ma le trote?” chiediamo con apprensione.
“Sono salve perfortuna. Siamo riusciti a ripristinare l’acqua. Che corse! Piuttosto, sarete affamati. Perfavore, fermatevi a pranzo. Vi invitiamo. Vogliamo ci raccontiate come è andata lassù”.
Carlos, gentilissimo, ci riporta al paesino, ci scambiamo grandi abbracci e ci auguriamo buena vida. Ormai l’unico bus che tornava a Capulla era già partito da un pezzo. Attorno la ampia e quadrata piazzetta, alcuni vecchietti camminano lenti godendosi l’imbrunire, qualche macchina parcheggiata da tempo immane, dei ragazzetti fanno evoluzioni con le bici, manifesti ingialliti di qualche cantante passato di lì, lavoratori che si godono una birretta nell’unico bar aperto. Chiediamo un po’ in giro, ottimisti. Nel giro di una mezzoretta sarebbe passato addirittura il vicesindaco che tornava a Capulla dopo alcune pratiche amministrative in zona.
Il vicesindaco, in macchina, ci esprime la sua contentezza “Sono entusiasta che siate venuti a visitare La Romelia. Non vediamo molti turisti da queste parti”. In maniera allusiva ci chiede “Ma avete visto tutto?”. Rimaniamo vaghi.
Ci dice che vogliono sviluppare il turismo in quell’area. Stanno già sistemando la strada. Così sarà più facile raggiungere La Romelia. Il vicesindaco afferma che il progetto prevede interventi sostenibili, piccole strutture ricettive, in perfetta armonia con l’ambiente. Con tutte le nostre energie dialettiche lo mettiamo in guardia dalle storture del turismo, dalla mercificazione di un luogo naturalmente bello. Lo preghiamo di stare molto attento e di mettersi di traverso verso quegli investitori che già hanno l’acquolina in bocca pensando a quanti dollaroni possono ricavare da una nuova meta vergine. Il mercato è sempre alla ricerca di posti ancora incontaminati. Se col marketing si comincerà a pompare questa zona, ci ritroveremo con l’ennesima baracconata turistica. Su guide, riviste, giornali, specializzati o no, on line o off line, alla voce “Must do!”, obbligatorio andarci.
Immagino bus pieni vomitanti grumi di vocianti americo-cinesi che sciamano come zombi e sfilze di negozi veramente finto-etnico alle porte della vallata.
“E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo. Come lacrime nella pioggia.” (cit.)
La mattina dopo siamo di nuovo con gli zaini in spalla. La stazione degli autobus è lungo la strada. Da una parte della carreggiata i mezzi che vanno da una parte e viceversa. Diverse compagnie di trasporto gestiscono diverse tratte e destinazioni e risulta difficile orientarsi. In mezzo al caos occorre prestare attenzione agli strilloni che campeggiano davanti il proprio minibus, il cui letrero reca scritto miriade di nomi di paesi.
“Zipa Zipa Zipaaaaaaaaaa”
“Manizales Manizales Manizaleeeeeeeeees”
“Pinchote, Pinchoteeeeeee”
In mezzo alla Babilonia di suoni, percepiamo una parola simile a Bogotà e ci avviciniamo. Si sarebbe raggiunta la capitale dopo qualche giorno. Gli ultimi giri di valzer e poi a casa, nella zona di permanente comfort.
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via Zona temporaneamente autonoma – Colombia parte 9°
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