Singapore: city break nella città più innovativa del sud-est asiatico

Beppe Calgaro

Singapore ha poco più di mezzo secolo (di indipendenza, conquistata nel 1965), ma conserva l’energia di un’adolescente. Ha decine di grattacieli il cui primato d’altezza cambia di anno in anno: ora tocca al Tanjong Pagar Centre, vera città verticale che non trascura il suo lato green, parola d’ordine del futuro. Ma la nuova Singapore gioca anche con i numeri, meglio: punta sui big data. Addirittura c’è chi l’ha definita una datacracy, ossia una società che si fonda sui dati per ottenere il massimo controllo sociale. L’aspetto positivo è la sicurezza. Quello negativo è facile da immaginare. Sempre più competitivi, sempre più alti, sempre più virtuali, sempre più verdi. La ricca città-stato asiatica si avvia così, in un mix di autoritarismo, capacità di visione, innovazione ecotecnologica, severità.

SINGAPORE: L’EVOLUZIONE DELLA CITTÀ-STATO SMART

Fino a non molti anni fa la Città del Leone (Singapura, in lingua malese) era tutt’altro che smart: grigia e severa, era la meta soltanto di businessman stranieri che fuggivano appena concluso l’affare. La storia ne ha fatto un mosaico di etnie (la popolazione cresce: nel 2017 è di quasi 5,8 milioni di persone, circa 100mila in più del 2016): indiani, malesi ed ex colonizzatori britannici. Ma Singapore è rimasta una città fondamentalmente cinese, forgiata dal padre dell’indipendenza, Lee Kuan Yew, primo ministro per 31 anni, dal 1959 al 1990. La sua ricetta: una dose di austera morale confuciana e tre dosi di lavoro, lavoro e lavoro. Così, secondo la Banca Mondiale, Singapore è stata per dieci anni di fila il migliore Paese del mondo dove fare affari, anche grazie a un sistema fiscale che prevede una tassazione massima del 17 per cento per le imprese e del 7 per cento per le persone fisiche. Come rovescio della medaglia, qui le giornate lavorative durano 12 o 14 ore, spesso per sei giorni su sette. Ma la popolazione oggi chiede maggiore welfare, più incentivi alla famiglia e nuove risposte in campo sociale. Così la nuova generazione di singaporiani 30-40enni ha deciso di concedersi lussi una volta impensabili. Per esempio, tempo libero e, magari, un lavoro meno stressante e una competitività meno esasperata.

SINGAPORE: APERITIVI FRA LE NUVOLE

Oggi, terminate le famose 12 ore, i singaporiani non corrono più a chiudersi a casa come facevano padri e nonni, ma si svagano. Meglio se in forme originali. Un esempio? Il gioco dell’aperitivo estremo, fra le nuvole. Gli adepti del rito del drink aereo si dividono in due gruppi. I più giovani prediligono i cocktail con vista dai 282 metri del 1-Altitude, l’open bar più alto del mondo, al 63esimo piano del One Raffles Place Building. Da lassù la vista spazia dai celeberrimi Supertrees (18 giardini verticali alti fino a 50 metri, recettori di energia solare), alle immense e pluripremiate serre dei Gardens by the Bay, fino all’edificio-icona di Singapore, il Marina Bay Sands, e alla spettacolare ruota panoramica, la seconda al mondo dopo l’High Roller Observation Wheel di Las Vegas (167,6 metri contro 165).
I singaporiani meno giovani e più dandy, anziché osservare questa foresta a due passi dal cielo, preferiscono starci dentro. Perciò trascorrono la serata in cima al Marina Bay Sands, un’architettura unica, formata da tre grattacieli uniti da una lunghissima terrazza a forma di tavola da surf. È qui che si trova il lounge-bar Cé la vi. Il locale, al 57esimo piano, è frequentato da ufficiali di Marina inglesi, modelle indiane, businessman cinesi e malesi. Vanta una piscina a sfioro lunga 150 metri: osservare il milione di luci notturne di Singapore stando in acqua, appoggiati al bordo, è uno dei privilegi più ambiti in città (ma è riservato ai clienti dell’hotel).

SINGAPORE: TRA ECOLOGIA E SEDUZIONE DIGITALE

Chi ama le atmosfere coloniali si dà appuntamento al Long bar dell’ottocentesco Raffles Hotel. Ordinare il Singapore sling, cocktail creato nel 1915 dal barman dell’albergo, permette una delle poche trasgressioni ammesse in città: buttare per terra i gusci delle noccioline. È una tradizione ineludile. Perché per il resto domina l’ossessione della pulizia: è perfino vietata la vendita di chewing gum. Si possono masticare, ma si rischiano multe salate a gettarle a terra. E sono rischi sempre meno remoti: dal 1° gennaio 2017 una scansione dell’iride cataloga tutti i residenti e i turisti che varcano i confini di Singapore. La tecnoetica è anche questo.
In compenso la tecnologia e l’attenzione alla pulizia e al verde stanno diventando una delle maggiori attrazioni per i visitatori internazionali. Non è un paradosso: lo spettacolo delle aree verdi strappate al mare (come i Gardens by the Bay) e di quelle verticali (il Park Royal on Pickering, hotel dai muri ricoperti di vegetazione), sono tessere di un progetto più ampio. Si riutilizzano i rifiuti solidi urbani per creare isole artificiali che ospiteranno ecofattorie; il fogliame raccolto nelle aree verdi viene usato per azionare le turbine dell’aria condizionata delle grandi serre dei Gardens by the Bay. Nella zona di Marina Bay, l’acqua alla foce del fiume Singapore, separata con una diga da quella di mare, viene prima resa potabile (la chiamano new water) e poi distribuita nelle scuole e negli ospedali cittadini.

SINGAPORE: TOUR NELL’ANTICA CHINATOWN

Da esplorare, l’antica Chinatown, dove si respira un’atmosfera da Celeste Impero molto di più che in tante città della Cina stessa. Il cuore pulsante è il Tempio del Dente del Buddha, una grande pagoda con le statue dorate dei Bodhisattva e le offerte di fiori e cibo, sempre freschi, portati da giovani (molti sono manager del vicino Financial District) che pregano, facendo roteare gli incensi. All’esterno, gli anziani del quartiere giocano a mahjong fra i banchetti di chopstick (bastoncini) decorati e di gustosi xialongbao (ravioli). A Singapore non si finisce mai di mangiare: in media lo si fa una volta ogni due ore. Per rimanere fedeli al principio di pulizia e ordine, la vendita del cibo di strada è concentrata negli hawker, grandi spazi coperti, affollati di banchi.
Il China Complex ne costituisce l’esempio perfetto: mentre si attende, per esempio, che al piano inferiore confezionino una camicia su misura, si può osservare, fra le bancarelle di cibo fumante, una lunga coda di persone. Molti sono disposti anche a fare un paio d’ore di coda pur di gustare una prelibatezza premiata dalla Guida Michelin Singapore. Una bancarella stellata? A Singapore è possibile. L’onore è toccato al banco di Chan Hon Meng, tanto più sorprendente se si pensa che il riconoscimento è andato a un piatto che costa due euro a porzione: il Liao Fan Hong Kong Soya Sauce Chicken Rice & Noodles, pollo marinato nella soia con riso e vermicelli, unica proposta della casa. Stella anche per un altro chef di strada, Tang Chai Seng, che in Crawford Lane prepara lo Hill Street Tai Hwa Pork, maiale tritato, fegato e vermicelli in salsa all’aceto.

SINGAPORE: DOVE FARE SHOPPING

Al limite estremo di Chinatown, la zona di Tanjong Pagar è la più tipica di Singapore: ci vivono i Peranakan, discendenti di quei mercanti cinesi che nel XV secolo ebbero figli da donne malesi e indonesiane e diedero così origine a un’etnia e a una cultura che esistono solo qui. Oggi i Peranakan sono solo l’uno per cento della popolazione, ma i segni della loro influenza sono ovunque. Su Neil road si affacciano le splendide abitazioni dei primi del Novecento, un mix di stili fra Oriente e Occidente, con fini decori di porcellana sulla facciata, colonne corinzie, tegole spioventi di gusto cinese e la tipica pintu pagar, la porta a cancello. Straboccante di memorabilia dell’epoca, Tong Mern Sern Antiques Arts & Craft è un bric-à-brac dove acquistare dalla lampada liberty alla bicicletta usata, all’altare buddhista portatile. Ha il sapore della scoperta inoltrarsi in Emerald Hill road, che si insinua fra i lussuosi centri commerciali di Orchard: una stradina pedonale punteggiata dai colori di flamboyant e ibiscus, pervasa dal profumo del fiore dei frangipane, costeggiata da case Peranakan tinta glicine, zafferano, verde pistacchio, con i buchi sulla facciata per far passare l’aria (condizionatore ante litteram). Molto più pop Joo Chiat, altro quartiere Peranakan dove si trova il negozio di Kim Choo, detta Bibi, che esegue ricami con minuscole perle di vetro di Venezia su raffinate ciabattine. Ottimi, nella civettuola East Coast Road, i dolcetti al cocco, all’ananas e il gustoso nasi lemak (noccioline piccanti mescolate con pescetti essicati), di Rumah Bebe. Per un’autentica cena Peranakan, imperdibile il ristorante Blue Ginger: si trova in una shop house e serve piatti che evocano i sapori di un tempo, come l’Otak Otak, uno sformato di pesce a base di pasta di gamberetti, profumato con curcuma, chili e galangal (zenzero blu, usato anche, fuori dalle cucine, come allucinogeno).
Ogni zona della Città del Leone ha la sua anima. Quella dei commercianti malesi di Kampong Glam è l’area calda dello shopping. Lontano dai mall, dalle griffe, dalle tai tai (le trendsetter asiatiche), qui dominano il gusto individuale e gli oggetti personalizzati. La sua Mecca è Haji Lane. In un clima che richiama molto la Carnaby street londinese, la strada raccoglie botteghe molto alternative. Craft Assembly espone pezzi unici di designer locali (orologi, bigiotteria, vestiti optical e a fiori); Tokyobike vende biciclette personalizzabili con una serie di accessori. Da Jamal Kazura Aromatics, con le boccettine di cristallo che sembrano contenere pozioni magiche, si preparano fragranze in base ai gusti del cliente. All’ombra della grande Sultan Mosque una piccola vetrina nasconde il Children Little Museum: si trovano le moto di latta degli anni Trenta e peluche, bambole di plastica e soldatini d’epoca.

SINGAPORE: SCOPRIRE LITTLE INDIA

Mille volti, per la stessa città. Prendete Little India: attorno a Serangoon road il ritmo frenetico dei grandi centri finanziari sembra lontano anni luce. Fra le stradine, si respirano le atmosfere del Tamil Nadu (per eccellenza lo stato indiano dei templi), fra i profumi di spezie del Tekka Center, i sarti che lavorano in strada, le bancarelle di incensi, le statue di Ganesh. Un vecchio edificio, che una volta accoglieva il bestiame, oggi ospita un delizioso boutique hotel, il Wanderlust, pieno di divertenti oggetti di modernariato. Gli uomini d’affari indiani che si affannano in giacca e cravatta nei grattacieli della finanza sono gli stessi che, indossato un tradizionale dhoti giallo-oro, partecipano alla processione del Thimithi Festival (si svolge una notte variabile tra ottobre e novembre) lungo l’arteria di South Bridge road, colpendosi con lunghe frasche. Entrati nel tempio della dea Sri Mariammam, ra tamburi e polveri colorate, affrontano per tutta la notte, incitati dalla folla, una consistente prova di fede: camminare sui carboni ardenti, in onore della dea.
Nella stessa notte, nella stessa città i figli di quei devoti hindu, con i coetanei delle altre etnie, affollano la zona di Clarke Quay e locali come Le Noir per assistere, per esempio, al concerto dei The Vibes, energetica band locale. Poi, stanno in coda ore, per ballare ai ritmi house della discoteca Attica. In fondo, anche questo è il futuro: tra big data ed eco-tecnologie, ognuno celebra i suoi riti, religiosi o musicali che siano.

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