La vetta del vulcano si raggiunge a piedi, senza fatica. Sul sentiero, sagome brune di scimmie curiose. E strane luci oscillanti. Secondo la tradizione locale sono presenze ultraterrene, spiriti dei defunti, anime sprofondate nel cratere. Qui tutto, nascita, morte, disgrazia, felicità, è dominato da poteri soprannaturali che sfidano l’uomo. Gli unici a dialogare con l’aldilà? I guaritori, interpellati per ogni cosa. Animismo e credenze ancestrali si sono fuse con la religione cattolica, professata dalla maggioranze della popolazione.
Sulla cima del vulcano l’aria si riempie di zolfo. E in bocca la saliva si fa stranamente amara. La vista è spettacolare e lo sguardo spazia sul cuore sacro della montagna: tre crateri si schiudono con altrettanti laghi. Due appaiati, l’altro più discosto, dal colore plumbeo e dall’aspetto minaccioso, racchiuso da pareti ripide. È il Tiwu Ata Bupu, il lago dei vecchi, che, secondo la credenza, si sono rifugiati qui dopo la morte. Anche gli altri due vantano nomi esoterici: Tiwu Ko’o Fai Nuwa Muri, il lago dei giovani e delle fanciulle, e Tiwu Ata Polo, il lago delle streghe. Ce n’è abbastanza per mettere in scena un teatro del mistero. Che trova una corrispondenza anche nei fenomeni geofisici: il colore delle acque cambia a seconda dei minerali portati a galla dal cratere. Così, appena la luce lo illumina, il Tiwu Ko’o Fai Nuwa Muri appare turchese. Poi, con il sole più alto, diventa verde, quasi smeraldo, per assumere sfumature rosse al tramonto. Non si fatica a credere che il vulcano, per i locali, sia sacro. L’escursione che si può fare è magica. La discesa termina tra le risaie, dove uomini e donne trapiantano le piantine sugli infiniti campi terrazzati. Qui, immerso nel verde, si trova il Kelimutu Crater Lakes Ecolodge, una manciata di bungalow costruiti secondo criteri ecosostenibili.
FLORES: VULCANI, FORESTE E CAFFÈ
Altri 13 vulcani costituiscono la spina dorsale di Flores. Tutt’intorno si addensa una foresta fitta, che si sfrangia sull’oceano aprendosi in spiagge deserte, dove perdersi tra tuffi e bagni di sole. Attraversando l’isola, da est a ovest, si incontrano invece villaggi dai ritmi antichi, un mondo a parte, lontano dalla modernità, che è vissuto all’ombra dei vulcani. Come Bena, dove la tribù Ngada abita in capanne disposte in doppia fila, sotto gli occhi vigili del cono perfetto dell’Inerie. Nel mezzo, si gioca una partita immobile: Bhaga contro Ngadhu, donne contro uomini. Le Bhaga sono capanne in miniatura usate per le offerte alle antenate di sesso femminile, mentre i Ngada sono grandi ombrelli di foglie di palma antropomorfe, che rappresentano la fierezza e la forza degli antenati maschi. Tra le due squadre, quasi a frapporsi tra i contendenti, si elevano grandi pietre acuminate raccolte a mazzo. Monoliti simili a tanti menhir, comunicano con il regno degli antenati. È qui che si versa il sangue degli animali, perché le anime dei morti e le divinità si venerano sacrificando bufali, maiali, galline. Corna di bufalo o mascelle di maiale sono appese, bene in vista, accanto alle capanne. Come tanti primitivi ex voto, testimoniano lo sforzo che l’uomo fa per ingraziarsi la buona sorte e la benevolenza delle forze dell’aldilà.
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Le isole di Flores e Sumba si guardano da vicino. A separarle, un braccio di mare e poco più di mezz’ora di volo. Flores, montuosa e ricoperta di vegetazione, è stata disegnata dall’orografia vulcanica. A Sumba, invece, dominano le colline, che concedono meravigliose viste sulle coste e sulle spiagge interamente deserte.
Alla sua estremità occidentale si sono conservati villaggi dalle tradizionali capanne altissime, le più curiose dell’arcipelago delle Piccole Isole della Sonda. Sono coni a pianta quadrata che sfidano il cielo con la loro punta aguzza. Il posto giusto per il soggiorno sull’isola è il Sumba Nautil Resort: sette cottage in stile tradizionale, opera di artigiani locali, sulla cima di una collina con una grandiosa vista sul mare. Il resort è anche il luogo ideale per una pausa di relax sulla sua spiaggia bianchissima. Oltre a fare il bagno ci si può cimentare con snorkeling, immersioni, surf, game fishing, trekking o escursioni a cavallo, nella foresta e lungo la costa. Un’esperienza da non perdere, questa, perché l’isola ne vanta una razza speciale, i sumba pony: più piccoli, sono uno status symbol, che gli uomini esibiscono in pubblico con molta fierezza. E vengono cavalcati a pelo, senza sella.
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Dal resort si parte alla scoperta dei villaggi tradizionali. Come Ratengaro, dalle capanne di bambù che sembrano torri di un villaggio medievale, e con un fiume lento che lambisce l’alta costa calcarea dalla quale si domina il mare aperto. Oppure come Wainyapu, altra selva di costuzioni a punta. “Per le tribù di Sumba tutto ruota attorno alla mitologia Marapu”, spiega la guida. “Dopo la vita terrena esiste un mondo soprannaturale eterno, popolato dalle anime degli antenati e dalle divinità. Una sorta di paradiso immanente, che ha una stretta connessione con la vita di ogni giorno”. Così nel cortile centrale del villaggio di Praiji troneggia l’altare sacrificale, un monolite scolpito con motivi antropomorfi legati alla tradizione Marapu. Agli stranieri è vietato avvicinarsi troppo. Anche qui, a ridosso delle capanne, sono state erette imponenti tombe di pietra che omaggiano i defunti. I funerali sono sempre sfarzosi: è un rito propiziatorio nei confronti del morto, il cui spirito aleggia perennemente sulla vita del villaggio.
Sodan invece si raggiunge con una breve camminata. È un nido d’aquila. Ai suoi piedi si spalanca la pianura definita dagli infiniti terrazzi verdeggianti delle risaie. Come altri villaggi, è arroccato in cima a un ripido colle. Lo scopo? Difendersi. Le guerre tra le tribù erano frequenti. E, a dimostrazione di potere e forza, i teschi dei nemici vinti venivano appesi a un palo piantanto al centro del villaggio.
Piter Rehy mostra con orgoglio un vasto spiazzo erboso dove tutti gli anni, a inizio febbraio, si celebra il Festival Pasola, un surrogato della guerra tribale, una battaglia metaforica: “Abbiamo bisogno di sangue per fertilizzare la terra, per propiziare il raccolto del riso, così dice la tradizione”, spiega mentre descrive lo scontro tra le diverse squadre di cavalieri. La partita è cruenta, non c’è nulla di finto. Si gioca sfidando gli avversari a colpi di lancia. L’abilità sta nella destrezza del lancio, ma anche nella capacità di montare a cavallo. Vince chi riesce a colpire il nemico. Ma è poi l’avversario ferito che versa il suo sangue, a favorire la fertilità dei campi: così vuole la mitologia Marapu. È un rito crudele: si svolge sotto gli occhi degli antenati che, come tante altre divinità, se ne stanno a guardare dal cielo le stravaganze e i vani cerimoniali degli umani.
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