Ad Abu Dhabi tutto è possibile: surf, fat bike sulle dune, safari

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Abu Dhabi rievoca l’immagine di qualcosa di sfacciato, audace, eccessivo. Vengono subito in mente i suoi primati da guinness: la torre più storta, l’hotel più lussuoso, il tappeto fatto a mano più grande, il distretto culturale più esteso del mondo e il Louvre di Abu Dhabi finalmente prossimo all’apertura (l’inaugurazione è infatti prevista per l’11 novembre)… Eppure tutto questo è soltanto una piccola parte dell’Emirato di Abu Dhabi, quella che se ne sta raccolta nella capitale. Intorno a lei è tutta un’altra storia. I 75mila chilometri quadrati di territorio del maggiore dei sette Emirati Arabi Uniti, testa e cuore della federazione, sono per lo più un’immensa landa contesa tra il deserto, 400 chilometri di coste semidisabitate e 200 isole. È lì l’Abu Dhabi che sorprende.

ABU DHABI: NEL DESERTO DI RUB’ AL-KHALI, TRA SURF, FAT BIKE E YOGA

L’Abu Dhabi che non ci si aspetta è la sabbia rossa del Rub’ al-Khali, letteralmente il “Quartiere Vuoto”, il deserto che abbraccia buona parte dell’Arabia Saudita, dello Yemen, dell’Oman e degli Emirati. Con i suoi 650mila chilometri quadrati (quanto la Francia, il Belgio e l’Olanda messi insieme) è il più grande deserto sabbioso senza soluzione di continuità del mondo. Una terra di nessuno: le condizioni climatiche sono tra le più spietate del globo: la temperatura varia da -10° a 55° C e ci sono violente tempeste di sabbia. Il Rub’ al-Khali morde il confine sud-occidentale di Abu Dhabi e, attorno all’oasi di Liwa, solleva il sassoso e monotono deserto che s’allunga fin qui dalla costa, in un mare di dune alte e superbe che toccano i 250 metri di altezza. Un esercito di colline bizzose e cangianti che mutano forme e colori in base ai capricci della luce e del vento. Un posto di traumatica bellezza che ha attirato esploratori, geologi, biologi fin dal XVI secolo.
Oggi sono i turisti ad arrivare fin qui per vedere i confini del nulla. Un drappello di ricognitori che aggredisce il deserto con i mezzi più disparati. C’è chi cerca di scalare le dune in sella alle fat bike, le biciclette dalle ruote larghe adatte alla sabbia; chi vuole cavalcarle con la tavola da surf, chi si affida al procedere lento dei dromedari e chi fa un corso di guida. Qualcuno tenta l’ascesa a piedi, altri si fermano sulla sommità di una duna per fare yoga, altri ancora preferiscono uno scrub con la sabbia del deserto, uno dei trattamenti proposti dalla Spa del Qasr Al Sarab by Anantara. Tra le tante attività, da non perdere il Falcon & Saluki Show, una gita nel deserto per assistere a uno spettacolo di falconeria e alle corse dei levrieri persiani, i cani da caccia dei beduini. Si sta seduti in mezzo al nulla guardando i falchi piombare sulla preda, sorseggiando tè e ammirando il tramonto sulle dune. Mentre la luce del sole bagna la sabbia scomponendosi in un caleidoscopio di colori, che virano dall’ocra al porpora, le stelle cominciano a disegnare il cielo pulito del deserto.

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COSA VEDERE AD ABU DHABI

Paesaggi, colori, tradizioni che gli emiratini considerano parte essenziale delle loro radici. “Mia nonna viveva con i dromedari, nel deserto, senza elettricità o acqua corrente. In tre generazioni è cambiato tutto, ma la natura scabra, il passato difficile della mia gente sono alla base del mio lavoro. Quando disegno un gioiello penso alle linee del deserto, alla nascita di una perla” racconta Azza Al Qubaisi, artista e designer di gioielli. Nel suo atelier, nel centro di Abu Dhabi City, stanno, fianco a fianco, materiali che sembrano incompatibili: asfalto e diamanti, fibre di palma e oro. Poco lontano s’innalzano i grandi mall, templi dello shopping emiratino. Il più originale è il Souq at Central Market: costruito sul sito del vecchio mercato centrale, è una reinterpretazione dei souk firmata da Norman Foster. Dentro c’è di tutto, dai souvenir come le tazze arabe, i rosari islamici o i modelli di dhow, ai pezzi d’antiquariato (belle le tradizionali porte in legno), agli abiti di Missoni. Fermatevi da Kani per acquistare i raffinati caftani in seta che vengono dal Kashmir, da Wadi Az Zafran per il sapone al latte di cammello, da Pacha per i torroncini aromatizzati ai petali di rosa e i golosi datteri ricoperti di cioccolata, pistacchio, sesamo. Per avere un’idea della varietà e dei differenti usi che qui si fanno del prezioso frutto del deserto bisogna andare al mercato dei datteri: sui banchi 120 qualità, da quelli usati solo in cucina ai più pregiati. Al Women’s Handicraft Centre le donne emiratine mostrano l’arte del telli, una sorta di ricamo a tombolo (è Patrimonio culturale dall’Unesco), quella del sadu (cuscini, sciarpe e tappeti intessuti al telaio) e il modo tradizionale di intrecciare foglie di palma per creare borse e ceste. Il Women’s Handicraft è in fondo alla Corniche, il lungomare di Abu Dhabi City. Niente di storico, anche se alle sue spalle c’è la parte più antica della città: la passeggiata non ha neppure 15 anni. Un tempo era tutta spiaggia, prima che l’allargassero per farne un’ampia strada lunga otto chilometri (conviene percorrerla in bici, o in taxi, in città molto economici). Da qui si può partire per un giro alla scoperta dei monumenti cittadini. A cominciare dalla moschea intitolata allo sceicco Zayed bin Sultan II, fondatore della nazione: 20 mila metri quadrati di superficie, quattro minareti alti 107 metri, 82 cupole, 1.192 colonne di marmo, 70 porte intagliate, 142 pinnacoli, il tappeto fatto a mano più grande del mondo (misura 7.119 mq) e un lampadario in cristallo Swarovski e oro di 10 metri di diametro e 15 di altezza.
D’obbligo gettare almeno uno sguardo al Capital Gate, la costruzione più storta del mondo: un palazzone di 35 piani, alto 160 metri e con una pendenza vertiginosa che supera di ben cinque volte quella della Torre di Pisa. Impossibile non varcare la soglia dell’Emirates Palace, lussuosissimo 7 stelle, dove i turisti arrivano numerosi per prenotare non una camera, ma una visita guidata. Per illuminarlo ci sono oltre mille lampadari di cristallo Swarovsky; in un angolo un bancomat, in cambio di denaro, distribuisce lingotti d’oro. A Le Cafè, la caffetteria in stile viennese dell’hotel, si servono cappuccini e camelccini (bevanda a base di latte di cammello e sciroppo di dattero) guarniti con scaglie d’oro a 24 carati, mentre da Meziai (uno dei suoi tanti ristoranti) si provano i piatti emiratini.
Per assaggiare la cucina locale non è necessario andare al Palace; in città una decina di ristoranti offrono ricette tradizionali, specialità ricche di spezie, limoni e frutta secca. Come Al Fanar, un locale che rievoca, nell’ambiente e negli arredi ancor prima che nel cibo, la vita nomade dei beduini del deserto: pareti in mattoni di fango, salette addobbate con tappeti e foto d’epoca, un piccolo souk. Da provare la shorbot adas (zuppa di lenticchie speziata), il machboos, riso con agnello e latte, le laqaimat, le frittelle di sciroppo di dattero servite con il caffè locale (aromatizzato con cardamomo e zafferano). Ma ad Abu Dhabi (dove l’80 per cento della popolazione è composta da immigrati) si possono provare le cucine di tutto il mondo, dall’italiana alla cinese, dalla thailandese alla mediorientale, dall’indiana alla magrebina. Quasi tutti gli alberghi hanno più ristoranti e offrono un piccolo giro culinario del globo. Allo Yas Viceroy, l’unico hotel al mondo costruito a cavallo di un circuito della Formula Uno, c’è il Kazu che offre autentica cucina giapponese. Il Rosewood, lussuoso albergo dalle pareti vetrate sull’isola di Al Maryah, ha uno dei migliori ristoranti di cucina libanese della città, il Sambusek. Allo Zaya di Nurai Island, un’isola privata al largo della costa di Abu Dhabi City trasformata in resort di lusso con camere e ville in riva al mare in stile occidentale, tre ristoranti offrono piatti di cucina giapponese e italiana con prodotti e vini bio.

MASDAR CITY: L’ENCLAVE VERDE ALLE PORTE DI ABU DHABI

L’Abu Dhabi che non ti aspetti è una città dove il petrolio è bandito, Masdar City. Strano per un Paese che all’oro nero deve la sua ricchezza e la velocissima crescita. Ma Abu Dhabi è una terra che ama declinarsi al futuro, il petrolio è il passato. Perciò il lungimirante sceicco ha voluto far progettare da Norman Foster un’enclave green, una città a emissioni zero alimentata totalmente da energie sostenibili. Per ora ne è stata completata soltanto una parte (i lavori termineranno intorno al 2020), quella che ospita l’Istituto di Scienze e Tecnologie. Un reticolo di strade strette e corte, disegnate in modo da sfruttare l’ombra, una torre del vento per incanalare e ridistribuire aria fresca, palazzi dalle facciate ondulate che lasciano entrare la brezza e tengono lontano il sole, pannelli fotovoltaici, una centrale eolica e un impianto di desalinizzazione per produrre l’energia necessaria. Niente auto (ma navette che si muovono su magneti) né rifiuti (appena il 2 per cento finisce in discarica, il resto diventa biocombustibile).

ABU DHABI: SAFARI A SIR BANI YAS ISLAND

L’Abu Dhabi che non ci si aspe tta è un’isola verde dove vivono, liberi, moltissimi animali selvatici: Sir Bani Yas Island. Un tempo questo grumo di terra impervia era un deserto di picchi rocciosi, fossili e sabbia. Poi lo sceicco Zayed volle farne una riserva naturale e vi portò tre milioni di piante (nutrite da un capillare sistema di irrigazione) e 13mila animali. Così il poetico progetto del padre degli Emirati, “coltivare il deserto”, cominciò a prendere forma. A lungo l’isola restò la riserva privata della famiglia reale; poi, negli anni Novanta, fu aperta al pubblico nei fine settimana e, in poco tempo, diventò talmente celebre che per poterla visitare occorreva prenotare con mesi d’anticipo. Oggi più di metà di Sir Bani Yas è occupata dall’Arabian Wildlife Park e ci si viene soprattutto per i safari. Questa sorta di piccolo “Jurassic Park” della Penisola Arabica infatti preserva specie in pericolo d’estinzione come l’orice indigeno, la gazzella araba, la iena striata. Basta un giro di un paio d’ore in jeep per avvistare antilopi e struzzi, branchi di gazzelle, isolate giraffe e ghepardi. E poi una miriade di uccelli: aquile, fenicotteri, aironi, pivieri, alzevole, cavalieri, falchi. Anche il mare che circonda l’isola è una piccola riserva naturale dove vivono, indisturbati, delfini, tartarughe marine, dugonghi, piccoli squali. A Sir Bani Yas star fermi è impossibile.
Finito il safari si può girare l’isola in mountain bike, tirare con l’arco, fare snorkeling, immersioni, pesca d’altura, kayak. Oppure tentare un’immersione a caccia di perle: qui i fondali sono ricchi di ostriche e, se si è fortunati e si pesca quella giusta, ci si può portare a casa il prezioso contenuto. Escursioni e attività sono organizzate dall’unico hotel dell’isola, il Desert Island Resort & Spa. Un complesso diviso in tre aree differenti tra loro. A nord c’è il corpo centrale, ricavato dalla villa usata un tempo dai reali; qui ci sono i tre ristoranti principali e la Spa. Sulla costa est si trova l’Al Yamm, con residenze dagli arredi in stile mediterraneo affacciate sul mare o sui canali tracciati dalle mangrovie. Nel cuore dell’Arabian Wildlife Park, proprio dove la vegetazione è più fitta, sorge Al Sahel, una trentina di ville in stile africano con grandi finestre aperte su un paesaggio che ricorda la savana. Un posto sfacciato, audace, eccessivo? Forse. Ma qui, nel silenzio disturbato appena dallo scalpiccio di orici e gazzelle, l’avveniristico skyline e le isole-cantiere di Abu Dhabi City sembrano lontanissimi.

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