Ritorno in Nepal: templi, monasteri, città reali

ph. Andrea Deotto

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Le rocce aguzze dell’Himalaya non sono solo una cornice. In Nepal sono un mondo in cima al mondo, dove la natura diventa mito e si fa testo sacro. L’aria rarefatta, il legno degli alberi, l’acqua dei fiumi, le nevi perenni, la pietra delle montagne: ovunque si mostra un’anima. Viene facile crederci, perché qui si sente la forza dello spirito. Che da secoli mette insieme, in perfetto sincretismo, induismo e buddhismo, dando vita a un’unica filosofia di vita, basata su tolleranza e rispetto. Qui templi e pagode, stupa e monasteri raccontano con pietra, legno, oro, colori, la storia di un abbraccio antico e solido. Non a caso, la parola universale, che si usa come buongiorno, buonasera, arrivederci, è namasté: “io saluto tutte le qualità divine che sono in te”. E lo si fa congiungendo le mani davanti al petto, in segno di sincerità.

Oggi, se si vuole aiutare il Nepal, ci si deve andare

Chi percorre le strade del Nepal fa un viaggio rarefatto, sospeso nello spazio e nel tempo, dove la religiosità permea ogni cosa e la vita scorre indifferente all’ansia occidentale di perfezione e velocità. Così, fatti e storie, anche drammatici, sembrano svanire nelle nuvole che si raggrumano sulle vette. Come i terremoti, qui frequenti. E terribili. Il più recente, il 25 aprile 2015: novemila morti, un milione di senza casa, danni ingentissimi. La mobilitazione del mondo è stata grande; importanti gli aiuti e il denaro ricevuti. Tanto si è ricostruito. Ma molto rimane da fare. Il problema più grave oggi? Le conseguenze del sisma. “Che alla fine ha colpito due volte”, sostiene Paolo Nugari, console onorario del Nepal in Italia. “Perché l’opinione pubblica ha rimosso questo pezzo di mondo,  conservandone solo il ricordo di vittime e devastazioni. E ha lasciato che una delle principali fonti di guadagno del Paese (il turismo vale il quattro per cento del Pil e crea impiego per migliaia di persone) soffrisse ben oltre quanto richiedesse la situazione”. In realtà, nella valle di Kathmandu, solo uno dei sette siti Patrimonio Mondiale dell’Umanità ha subito sostanziali danni. Per tutti gli altri, il restauro e la ricostruzione sono a buon punto. “I sentieri per il trekking e i monumenti sono tutti visitabili senza timori” conclude Nugari. “Oggi, se si vuole aiutare il Nepal, ci si deve andare.”

Le città reali nella Valle di Kathmandu

Il Paese è sicuro. E bellissimo. Come sempre. E mostra, quasi con orgoglio, le sue cicatrici. È nella valle di Kathmandu, crocevia di commerci tra Cina e India che, nel corso dei secoli, molte civiltà hanno lasciato una preziosa eredità. Su questa oasi pianeggiante di 40 chilometri per 30, bagnata dal sacro fiume Bagmati e dal Vishnumati, a poco più di 1.300 metri di altitudine, si trovano le tre città reali di Kathmandu, Patan e Bhaktapur, espressione del massimo splendore della dinastia Malla, tra il XV e il XVII secolo. Un triangolo magico di arte, spiritualità, cultura che inghiotte il visitatore in un turbinio di palazzi, stupa, fontane, pagode, templi, piazze. C’è da perdersi. E anche i più laici non possono non lasciarsi andare al dolce pensiero che, qui, abbia soffiato un qualche dio. Il suo respiro, e quello dell’uomo, si mescolano di continuo.

Kathmandu, mercato a cielo aperto

Felice e tragica, la regina è lei, Kathmandu. Perfetta capitale da terzo mondo nella sua abissale miseria e caotica modernità, trafficata e inquinata, mette insieme linee dritte e spezzate, guglie di templi secolari e improbabili edifici a molti piani, affiancati da casupole storte e slabbrate. Con un ventre molle, violentato dal terremoto, che ogni tanto sbuca all’improvviso dietro un angolo o una piazza. La città è un infinito mercato a cielo aperto devastato da auto, bus, risciò, cicli, carretti, vacche (che sono sacre) e più di un milione di persone che si spostano in un moto perpetuo e confuso. Persino Freak street, strada-mito degli hippies che, dagli anni Sessanta, qui trovarono il loro paradiso (Beatles compresi), è stata masticata irrimediabilmente da questa immensa marea. Di quelle atmosfere non rimane che qualche personaggio nostalgico e l’insegna di improbabili, economiche guesthouse. Allora non resta che farsi trasportare, camminando lentamente e buttando l’occhio su vetrine e banchetti che sono solo colori, odori, stupore, e non offrono nulla di interessante da comprare.

Durbar square: pagode, stupa e ruote della preghiera

Per poi ritrovarsi nel suo cuore pulsante, Durbar square, in un caos di pagode, stupa, altari, ruote della preghiera. Al centro, puntellato e protetto da pali e impalcature, quello che resta dei tre piani del Kashta Mandap, tempio indù del XV secolo, che ha dato il nome alla città. È crollato durante il terremoto. Un cartello spiega che i soldi, per ricostruirlo, ci sono. E allora? “Politica e burocrazia nepalesi sono note per la loro lentezza” spiega Raj Kumar Thapa. Ha 40 anni, fa la guida da 20, parla un perfetto italiano, studiato alla Società Dante Alighieri di Kathmandu. “Parlamento, partiti e istituzioni litigano fra loro. Nell’attesa, le cose rimangono così. Ma il tempo non lo abbiamo. Nell’ultimo anno il Pil del Paese, uno dei più poveri del mondo, è calato del 35 per cento. Bisogna ricostruire case, scuole, ospedali. Il denaro c’è, basta usarlo”. Fondazioni internazionali, governi, associazioni si sono impegnati a donare aiuti per più di cinque miliardi di euro, ma il Nepal ne ha incassati meno di un quarto. Ora il rischio è che vadano perduti. La classe politica pare incapace di trovare un accordo operativo.

Le donne sono il motore del paese: lavorano nei campi, curano figli e casa

Pesa, e molto, la giovane età democratica di questa Repubblica federale. Solo nel 2006 si è conclusa una guerra civile durata 11 anni, sanguinosa e crudele come solo le lotte fratricide sanno essere, che ha fatto più di 13mila morti e ha deposto una monarchia che regnava, più o meno assoluta, da oltre due secoli. Certo, segnali positivi ce ne sono. Come la recente elezione, per la prima volta nella storia dell’ex regno himalayano, di una donna presidente: Bidya Devi Bhandari, 55 anni, battagliera femminista ed esponente del partito comunista. La sua è una carica onorifica, ma di forte impatto per il ruolo che ha avuto nella difesa dei diritti delle donne nella nuova Costituzione. Sono loro il motore del Nepal: lavorano nei campi, curano la casa, badano ai figli. Ma sono discriminate nei fatti in una società tradizionalista e patriarcale, ancora divisa per caste. Se, del Kashta Mandap, si guardano le foto di come sarà una volta ricostruito, gli altri templi, le pagode e il palazzo reale sono tutti ancora in Durbar square. Come in un grande giardino di pietra, è bello fermarsi a impigrire e a osservare la vita: venditori di frutta, ragazzi che giocano a palla, vecchi chini sulle scacchiere, donne che offrono cibo agli dei, sadhu, gli asceti indù che, in cambio di un’onesta elemosina, si offrono ai turisti per qualche clic.

Cinque secoli di Kamasutra incisi su pietra

La religiosità esce allora dai confini dei luoghi sacri e si espande in strada, vive. E la fede prende tinte e giocosità di una festa. “All’induismo come al buddhismo bisogna accostarsi con l’animo sfrondato dai tabù dei cristiani, che credono Dio sia amore o collera,  punizione o paradiso. Senza sfumature,” spiega Raj. “I nostri dei possiedono uno spiccato senso dell’errore. E anche dell’umorismo.” Basti pensare ai duemila anni di storia occidentale dipinti e incisi su pietra, con immagini di santi e martiri sofferenti. Qui non è così. E nella piazza, se si alzano gli occhi sulle travi del tempio di Jagannath, costruito nel 1563, si ammirano, in un complicato gioco di intagli, le istruzioni per fare l’amore: ogni capitello, una posizione. Cinque secoli di Kamasutra portati divinamente. Come nel palazzo reale di Patan, a mezz’ora di auto. Nel grande chiostro, le cento raffigurazioni di Vishnu e altrettante posizioni dell’amore scolpite su legno.

Il Piccolo Buddha a Bhaktapur

Bhaktapur è una cittadina sonnolenta distante una ventina di chilometri. Merita sedersi sui gradoni di uno dei suoi templi, in Durbar square, dove Bernardo Bertolucci nel 1993 girò Piccolo Buddha: al tramonto offre uno scorcio magico. Fra blocchi squadrati, tetti sbilenchi, leoni di pietra e il Palazzo delle 55 Finestre con la Porta d’Oro, che riflette i raggi radenti del sole. A differenza della capitale, nella piazza non sono ammesse auto. E il silenzio è denso di odori e colori. Come secoli fa.

Pokhara, il paradiso degli sportivi

Il paradiso degli sportivi si chiama Pokhara, città a quasi mille metri di quota, 200 chilometri a nordovest di Kathmandu. Sulle rive del lago Phewa, è circondata da alture e vallate verdissime. Sulla città incombe uno dei giganti del Nepal, il massiccio dell’Annapurna: un ammasso di vette candide con sei cime oltre i settemila e l’Annapurna I che, con i suoi 8.091 metri, è una delle meraviglie del mondo. Non solo. Subito accanto, la vertiginosa piramide del Machapuchare. Ovvero, coda di pesce. Perchè sale dritta nel cielo per 6.993 metri, con tagli netti che sembrano scolpiti (pare il Cervino). Detta anche la Vergine, nessuno ha mai potuto scalarla: dedicata a Shiva, è sacra agli induisti. Pokhara non è solo la porta di accesso all’Annapurna per i professionisti delle scalate, ma è anche la base di partenza per spettacolari trekking che si infilano nel massiccio. Semplici passeggiate o anche escursioni di più giorni, a seconda della difficoltà prescelta. Le valli tutt’intorno sono poi ricchissime di fiumi, dove ci si può cimentare con rafting, kayak e canyoning. Moltissimi i sentieri da percorrere in mountain bike, mentre le alture circostanti sono il luogo ideale per il bungee jumping e il parapendio (organizzazione: amartreks.com). Il posto migliore? La collina di Sarangkot, 1.542 metri. Imperdibile anche per chi sportivo non lo è. Qui si viene per vedere l’alba. L’alzataccia, alle 4, merita per lo spettacolo. Il buio della notte saluta le stelle e lascia il posto alla luce rosata dei primi raggi del sole, che illuminano le montagne. I giganti dell’Annapurna sono lì, a meno di 30 chilometri, e riempiono l’orizzonte di cime e di ghiaccio. Sono solo le sentinelle più vicine. Appena a fianco e dietro ci sono tutti gli altri, Everest compreso.

Il parco di Chitwan, ex riserva di caccia del re

Le montagne: impossibile dimenticarle. Il Nepal conta otto dei 14 ottomila del pianeta e numerose altre vette che superano i settemila. Non serve arrampicare o fare trekking. Perché le cime sono sempre presenti. Anche se spesso non si vedono: sono così alte che le nuvole sembrano esserne calamitate. Uscendo dalla valle di Kathmandu incombono ancora di più. Il parco di Chitwan è solo 160 chilometri a sudest, ma per arrivarci ci si mette una giornata. Le strade sono poche e dissestate. Percorse da auto, moto, camion, bus, autobotti, jeep, si trasformano spesso in un unico, interminabile e rumoroso serpentone di mezzi. Accade così che il tempo assuma una diversa dimensione. E che il viaggio, lento e faticoso, spalanchi le porte di un mondo nuovo e meraviglioso. Terre coltivate a sudore e muscoli come millenni fa, fitti boschi di sal, gigantesco albero  fronduto, rododendri, risaie verdissime, ponti sospesi su fiumi impossibili, monasteri aggrappati alle rocce. Ovunque, le bandierine buddhiste, appese nei luoghi più alti, così che il vento possa raccogliere i mantra scritti, e trasportarli in alto verso il cielo, per essere ascoltati e diffusi. Giallo, verde, rosso, bianco, blu. Terra, aria, fuoco, acqua, cielo. Sono loro le fedeli compagne di questo itinerario: sempre vicine, per ricordare a tutti di essere in un luogo gentile, sacro e sicuro. Perché loro, nel vento, stanno pregando anche per chi viaggia.

I coccodrilli gaviali e i rinoceronti con un corno solo

Chitwan è il Nepal che non ci si aspetta. Infuocato,umido, pianeggiante. Di notte, dimora di stelle grandi come soli. Di giorno, paradiso lussureggiante di giungla fittissima e di animali da arca di Noè. Il rinoceronte indiano (a un corno solo), il coccodrillo gaviale (dal muso lungo e strettissimo), cervi, tigri del Bengala, orsi. E, all’orizzonte nord, la  stupefacente sequenza dei candidi e possenti denti dell’Himalaya: l’Annapurna, il Machapuchare, il Dhaulagiri, il Mananslu… Un fiero monito a non dimenticare mai che, in nessun altro luogo della terra, un ambiente tropicale e uno artico si fronteggiano così da vicino. E con prepotenza. “Il parco, 932 chilometri quadrati, era riserva di caccia dei re nepalesi. Oggi è uno dei più grandi dell’Asia e Patrimonio Unesco”, racconta il ranger Yamna Thgiri, 53 anni. Il modo migliore per esplorarlo? “In barca, a dorso di elefante, o a piedi, immergendosi nel silenzio della natura più selvaggia”. Non esistono mediazioni, poche le comodità. Qui, come in tutto il Paese, ci si viene se si ha davvero qualcosa da recuperare alle emozioni e ai sensi. Dove un credo filosofico, un sapere libresco, un’immagine cinematografica riescono finalmente a prendere corpo e forza, odore e densità di sguardi. Così, l’esatta misura delle montagne, la storia della sua gente, la pratica di una religione, ogni luogo, ogni incontro sono uno stupore, una profezia inattesa, un’esperienza che cambia chi la vive. Questo è il regalo del Nepal.

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