“L’80 per cento dei miei lavori nascono dalla rabbia”, dichiarava Jean-Michel Basquiat in un‘intervista. Una rabbia che arrivava dalla voglia di rivalsa dal desiderio di trasformare la negritudine, dall’accezione negativa che aveva nella società degli anni ’80 in possibilità creativa mirabolante.
Emerge tutta nelle 140 opere in mostra da domani al Mudec, il Museo delle Culture di Milano, che azzarda una correlazione ardita: far seguire, nello stesso spazio espositivo circolare, le opere etnografiche con lo spirito tribale dell’artista newyorkese.
Curata da Jeffrey Deitch, che di Basquiat era amico, e da Gianni Mercurio la mostra alliena oltre 140 opere.
Esposti oltre 100 lavori prestati da Yosef Mugrabi, il collezionista isrealiano che ha iniziato a acquistare tele di Basquiat quando lui era ancora vivo, insieme a opere provenienti da privati e musei di tutto il mondo, allineate in un percorso scandito per luoghi e periodi che consentono di ripercorrere la carriera dell’artista attraverso i passaggi salienti.
Le tele tirare sui legni grezzi incrociati, riportano al periodo di Samo, la tag con cui il genio ribelle firmava i suoi graffiti su porte e muri di New York, dal Village a Harlem, sulle strade dove viveva dopo essersene andato da casa.
Il passaggio da Samo alla star rivoluzionaria del firmamento artistico americano e internazionale avviene in Italia. La prima personale infatti Jean – Michel Basquiat la fa a Modena, nel maggio 1981, nella galleria di Emilio Mazzoli. Lo scalpore fu grande: un artista nero e provocatorio insieme. La critica lo affossa. Annina Nosei, italiana con galleria a New York, lo nota e lo spinge a tornare negli Usa terminato il giro di esposizioni previste in Svizzera e Olanda.
È il boom: Nosei gli mette a disposizione quel seminterrato in Prince Street lo scantinato che sarà l’ascensore per la celebrità: i collezionisti si contendono i suoi lavori, escono con le tele non finite. Se ne ammirano esposte.
Nosei lo spinge a superprodurre per accontendtare tutti, lui ce la fa aumentando l’uso della cocaina.
E le tele con i colori vividi incantano. Lui mischia collage, aerografo e acrilico, usa le parole come pennellate, come spiega in una delle tante interviste, e le quotazioni volano.
Ormai è una star, frequenta la Factory di Andy Wharol, con lui lavora a diverse opere prodotte a quattro mani. Alcune sono espote nell’ultima sala. Sono lavori di grande respiro, dove un critico del New York Times vede però una sudditanza con Wharol tanto da definierlo “la sua mascotte”.
Un brutto tiro che spinge Basquait a prendere le distanze dall’amico per ritrovarsi. Sarà l’inizio dela fine, Andy Wharol scompare nel febbraio dell’87, Jean-Michel Basqauit il 12 agosto aveva 28 anni (22 dicembre 1960-1987).
Inediti i disegni e dipinti su carta esposti accanto alla collezione di piatti in ceramica sui quali Basquiat traccia il volto o un’allegoria che rimanda a grandi creativi dell’800 e ‘900, da Picasso a Hitchcock.
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