Bogotà città tentacolare – Colombia parte seconda

Continua il viaggio di Paolo a cui si unisce Giorgia. Il racconto da Bogotà, non una ma molte città.

“La memoria vive nella strada”

Quando arriviamo dalle parti di Corabastos, il più grande mercato coperto di tutta la Colombia, non sappiamo più dove dirigere lo sguardo. Si percepisce che l’atmosfera è calda. I marciapiedi sono molto affollati, un andirivieni di gente che ha interessi che ruotano attorno a questo mercato gigantesco. Ci sono venditori di cianfrusaglie a bordo strada, quattro o cinque bar con i clienti dalle facce più truci abbia mai visto. I piani superiori sono adibiti a bordelli e le prostitute attendono i loro clienti sul marciapiede o sorseggiano una birra. Gli edifici sono immancabilmente fatti di mattoni a vista. Più d’uno è però colorato in maniera geometrica per dare un lieve tocco di bellezza. Inferriate alle finestre. Ci sono carretti che vendono frutta e verdura. Alcuni si attrezzano per cucinare e rivendere carne fritta, alla brace o alla piastra con banchetti più o meno stabili. Indigenti chiedono la carità. C’è qualche negozio di telefonia, un carrozziere, un ferramenta, un ristorantino ricavato da un garage, negozi di vestiti molto economici e molto sintetici, parecchi negozi di biciclette. Molti abitanti infatti trasportano merce del mercato da una parte all’altra dei quartieri vicini con biciclette munite di portapacchi. Le biciclette vengono pure trasformate in risciò per i piccoli spostamenti. Dall’altra parte della strada invece partono quattro quadre in cui è meglio proprio non infilarsi.

I riciclatori, coloro che girano di notte per la capitale a raccogliere carta, cartone, plastica, vetro portano la loro merce qui per ricevere qualche spicciolo in cambio. In questa zona si può trovare merce rubata, qualsiasi tipo di droga e armi. Una strada di pochi metri divide la zona piuttosto pericolosa da quella assolutamente pericolosa. Noi rimaniamo ipnotizzati da vecchi e bambini che rovistano in piccole montagne di spazzatura, da un paio di chevrolet scassate, da dei copertoni che vanno a fuoco e persone con facce ancora più truci appoggiate ai muri a controllare la situazione.

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“Mi raccomando Paolo, niente foto, tieni il cappello sulla testa che i tuoi occhi azzurri si notano troppo e non parlare perchè hai un accento che suona gringo (straniero, statunitense)” mi dice Yamile, la nostra guida mentre tiene a bada non solo me e Giorgia ma pure suo figlio e suo nipote che sono al seguito. Yamile ha deciso che vedessimo coi nostri occhi in che contesto opera la fondazione che siamo venuti a visitare. Raggiungiamo la casa del Pequeño Trabajador. Alcune associazioni si sono aggregate all’evento da loro organizzato in un parchetto dove i ragazzi che partecipano alle attività dell’associazione festeggiano e mostrano quello che hanno imparato: danze tipiche del folclore colombiano, teatro, serigrafia.

Molti bambini, bambine e giovani dei quartieri più vulnerabili provengono da situazioni familiari disagiate in cui l’indice di violenza è molto alto. Uno dei rischi che maggiormente corrono, soprattutto chi abbandona la scuola e trascorre la maggior parte del tempo nella strada, è il reclutamento armato da parte dell’esercito o di bande criminali. Tanti sono i bambini lavoratori appartenenti al movimento dei Nat’s-Ninos, Ninas y Jovenes Trabajadores (Bambini, bambine e giovani lavoratori). Nel Pequeño Trabajador imparano ad esercitare un’attività lavorativa degna, adatta all’età e che gli permetta di sviluppare creatività, autonomia, gioco e riflessione sui propri diritti.

In questi quartieri si capisce la Colombia tanto come in un museo. Di solito si fa turismo sulle vestigia dei fasti di un paese tralasciando di comprendere come il passato si trasforma in attualità. A Bogotà, come in molte altre città dell’America Latina, il sud e il nord della città sono differenti. Al di là dell’evidente contrasto sociale ed architettonico nei quartieri sud orientali della città esistono realtà che agli abitanti del nord quasi rimangono estranee. È per questo che Bogotà non è una città sola, bensì molte città. Raggiungere dal centro storico zone come San Martin, o il barrio Nueva Gloria o qualche altro quartiere della località di Ciudad Bolívar, richiede un dispendio di tempo ed energie notevoli: anche utilizzando qualsiasi mezzo di trasporto, taxi o autobus, ciò che si prova, arrivati a destinazione, è la sensazione di aver affrontato un lungo viaggio.
Per capire la storia di questa città è importante visitare i quartieri popolari o “de invasiòn” ovvero tutti gli insediamenti che sono nati spontaneamente a causa delle migrazioni forzate di molti contadini dalla campagna o da altre zone urbane alla capitale. Tuttavia, molti di questi quartieri non sono quasi più spazi illegali; molte zone, infatti, hanno già affrontato o sono interessate dal processo di legalizzazione.

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Un’altra buona chiave per leggere la megalopoli sono i graffiti.
Bogotà ne è piena. Sono davvero molti gli artisti bogotani, colombiani e non, che con la loro arte narrano storie e fatti successi nel paese e nelle strade. Sono storie di quotidianità, memorie del passato, danno voce alle persone che abitano la strada, raccontano di fatti che hanno segnato, purtroppo con la violenza, la storia del paese. “Il futuro necessita ricordare. Ricordare necessita futuro”. I graffiti ti chiamano e invitano a non dimenticare il passato e ad essere più cosciente del presente; mentre contempli la parete e l’immagine che essa racconta rifletti, ti commuovi, sorridi, senti rabbia, indignazione, ti riempi di speranza ed energia positiva! In Colombia, molte persone hanno deciso di non tacere, perché il silenzio altro non fa che influire negativamente su una società dalla cultura violenta.I graffiti di Bogotà ci fanno innamorare un po’ di più della città e del suo caotico centro storico.

Dopo averne fatto indigestione siamo pronti per ascoltare il racconto di Alberto, un signore che vive in un quartiere a sud del centro, in alto, sulla montagna. Di mestiere fa l’operatore ecologico e la sua grande passione è la lettura. È convinto che i libri possano avere molte vite e noi ne siamo certi dal momento che l’intera biblioteca da lui creata, è composta interamente da libri trovati nella spazzatura. La sua avventura comincia grazie ad un Anna Karenina abbandonato in un cassonetto in un quartiere a nord della città. La casa è la sua officina e nel giro di qualche minuto riceve tre chiamate da parte di privati che vogliono donare libri. La biblioteca comunitaria è l’unica nel quartiere e il signor Alberto oramai dispone di talmente tanti libri da riuscire finalmente nel suo obiettivo di aprire più spazi con libri nel quartiere. La casa-biblioteca si riempie di bambini che al pomeriggio, terminate le noiose ore di scuola mattutine, approfittano di questo luogo dedicato alla lettura condivisa.

“Ma tu quando trovi il tempo per leggere se di notte lavori e di giorno recuperi le forze?” chiede Giorgia.
“Impiego due ore per andare al lavoro e al ritorno anche di più” ci spiega Alberto. Mentre Giorgia esplora le montagne di libri, si imbatte incredibilmente nell’Isola di Arturo di Elsa Morante, uno tra i suoi libri preferiti. Qualche minuto dopo (questa volta devo davvero credere che non si tratti di pura coincidenza, bensì di qualche messaggio che i libri ci stanno mandando) ci precipita addosso, cercando di prendere un altro libro sotto una pila di venti, Le città invisibili di Italo Calvino, un altro scritto presente nella sua top 5 dei libri adorati. Giorgia rimane piuttosto emozionata per l’accaduto e consiglia vivamente al signor Alberto di leggerli dato che entrambi sono tradotti in spagnolo.

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Vorrebbe che il Comune desse loro uno spazio più grande. Tutti quei libri, per quanto Alberto li distribuisca in giro per tutta la Colombia continuano ad arrivare al soffitto del suo spazioso seminterrato.
Rimaniamo a chiacchierare un po’ con Alberto che orgoglioso ci mostra gli articoli di giornale dove compare e ci parla del suo grande amore dopo la lettura: la musica italiana degli anni ‘70. A quanto pare in quegli anni, in Colombia, Sanremo lo guardavano veramente tutti. Alberto si avvicina allo stereo e mette un pezzo di Nicola Di Bari, “El corazòn es un gitano”. La canzone non fa in tempo ad arrivare al ritornello che un altra telefonata interrompe Alberto.
“Una biblioteca di Cali ci dona 500 libri” ci dice. “E questi dove li metto?”



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