Ore quattro del mattino: il Monastero del Drago nel Cielo (Tenryuji, in giapponese) si è risvegliato, e i suoi ospiti con lui. Attraverso gli shōji – i pannelli scorrevoli in carta di riso – filtra ancora la luce madreperlacea della luna piena. Ripiegati come sacchi a pelo i futon, ci si dirige in fila, guidati dall’abate, nella sala da meditazione: qui ci si siede, ciascuno su un tondo cuscino nero, con lo sguardo rivolto verso la parete di legno e carta, in assoluto silenzio. Quaranta minuti di meditazione seduta (zazen), 10 di meditazione camminata e altri 40 di zazen. Infine si fa colazione con i monaci: verdure, funghi, zuppa di riso e l’umeboshi, una prugna acida marinata nel sale, tremenda al gusto per gli italiani, ma molto apprezzata dai giapponesi per le sue virtù salutari.
Ci si trova nella prefettura di Fukui, zona occidentale dello Honshu, la principale isola del Giappone (quella dove si trovano anche Tokyo e Kyoto). Il Tenryuji è un monastero né famoso né grande: oltre all’abate ci sono solo tre monaci e una monaca. Eppure è importante: si trova infatti molto vicino al glorioso Eiheiji, il “Vaticano” del buddhismo Zen Soto, e gli fa da dépendance accogliendo (raramente) piccoli gruppi di occidentali che, senza essere necessariamente buddhisti, vogliono condividere per 24 ore lo stile di vita dei monaci zen. È un buon punto di partenza per visitare l’Eiheiji, maestosa città-tempio fondata nel XIII secolo, ricca di 70 padiglioni immersi in una foresta di altissime conifere vecchie 600 anni, e circondata da montagne. Guarda la gallery su Giardini e templi del Giappone.
Fino a poco tempo fa è stato frequentato solo da pellegrini nipponici e ignorato dal turismo. La situazione però sta cambiando, in generale per il Sol Levante (nominato “meta dell’anno” dal mensile Forbes nel 2015) e in particolare nella regione di Fukui, oggi meta emergente. Anche gli italiani cominciano finalmente a esplorare anche le parti meno note del Giappone. Non a caso. Per celebrare i 150 anni del primo trattato di amicizia fra il nostro Paese e il Sol Levante, infatti, il 2016 è stato ufficialmente nominato “Anno del Giappone in Italia” e gli scambi culturali e turistici si intensificano.
Il mondo e la sua bellezza sono racchiusi nei giardini zen di questi monasteri. Ma a un primo sguardo ci si stupisce: solo ghiaia e sassi. Dov’è la natura per cui i giardini giapponesi sono famosi? In effetti il giardino zen è una cosa ben differente: è un “giardino secco”, che non contiene la natura, bensì la raffigura in forme astratte. Come in un quadro simbolista: la ghiaia rastrellata dai monaci rappresenta le onde marine, i sassi sono le montagne che emergono dal mare, mentre una zolla di muschio è un’isola nell’oceano.
Il giardino zen più famoso del Giappone, capolavoro del suo genere e Patrimonio Unesco, è il Ryoan-ji, uno dei luoghi imperdibili di Kyoto. Realizzato nel 1499, è un rettangolo di ghiaia bianca, “pettinata” a onde, con 15 rocce che spuntano da quel mare astratto. Chi lo guarda stando in piedi non può coglierne l’essenza, perché un giardino da meditazione va contemplato nella posizione del meditante, cioè stando seduti. Soltanto in questa postura si coglie il suo segreto: da qualsiasi punto lo si osservi, è impossibile vedere tutte e 15 le pietre, perché ce n’è sempre una nascosta all’occhio dell’osservatore. Il Ryoan-ji è una rappresentazione del mistero della natura: c’è sempre qualcosa in essa che sfugge alla nostra comprensione. Possiamo solo ammirarne l’armonia.
Anche il tradizionale giardino giapponese infatti celebra l’armonia della natura, ma in modo totalmente diverso dal giardino zen. È un trionfo di fiori e di piante dove le famiglie si recano come in un rito comunitario di celebrazione della vita.
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I TEMPLI SONTUOSI DI NARA
Qualsiasi elemento naturale – un fiore, un animale, una montagna o un tratto di mare – può essere oggetto di venerazione in quanto sede di un kami, uno degli infiniti spiriti divini che vivono in ogni cosa. Così secondo l’antichissima religione autoctona, lo shintoismo, tuttora praticato dalla maggioranza della popolazione. Visitando la città di Nara e i suoi sontuosi templi, come il Todai-ji (buddhista) e il Kasuga (shintoista), ci si stupisce di entrare in una favola popolata da migliaia di cervi. Girano indisturbati ovunque, non solo nei parchi di questi santuari, ma anche nelle strade e sui marciapiedi: sono animali sacri perché considerati i messaggeri divini dei kami. Su queste suggestioni dello shintoismo si è poi innestata una religione venuta da lontano, dall’India e dalla Cina: il buddhismo. Entrare in un giardino è come fare un viaggio nel tempo, perché la ciclicità delle stagioni ci ricorda il suo trascorrere: la fioritura dei ciliegi a primavera e la caduta delle rosse foglie d’autunno ci rimandano all’incanto e alla caducità di quell’attimo fuggente che è la nostra vita, e ci ricordano di apprezzarla. L’impermanenza non ha risparmiato neanche uno dei monumenti-simbolo dell’antica città di Kamakura (ad appena 45 minuti di Shinkansen, il treno-proiettile da Tokyo): nel XV secolo uno tsunami arrivò fino alle colline spazzando via un tempio del Buddha Amida. Oggi rimane solo, all’aperto, una magnifica statua in bronzo del Buddha seduto in meditazione, alta 11 metri.
LA BELLEZZA ASSOLUTA DEL KINKAKU-JI A KYOTO
La formula perfetta dell’estetica natura-arte-spiritualità si trova a Kyoto. Fra i 1.800 templi della città (fortunatamente risparmiati dai bombardamenti americani nella Seconda guerra mondiale) ce n’è uno di bellezza assoluta. È il Kinkaku-ji, Patrimonio Unesco noto anche come il Padiglione d’Oro, perché ricoperto di foglie d’oro zecchino. Costruito nel 1397 come residenza dello Shogun (capo militare del Giappone), e divenuto tempio zen alla sua morte, è una pagoda a tre piani che si specchia in un piccolo lago, circondato da alberi che sembrano dipinti su carta di riso. Uno dei maggiori scrittori del XX secolo, Mishima Yukio, gli dedicò un celebre romanzo (Il Padiglione d’Oro, appunto) in cui raccontava la storia del monaco-custode che, sopraffatto dalla bellezza del luogo, impazzì e diede alle fiamme il tempio. Una versione giapponese della sindrome di Stendhal. I numerosi ammiratori di questo luogo discutono da tempo su quale sia la stagione migliore, e l’ora del giorno più adatta, per godere di questo matrimonio ideale tra arte e natura. Un monaco zen risponderebbe: quando l’occhio dell’osservatore sarà pronto a cogliere la bellezza, ecco il momento perfetto.
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