Cosa ci faccio con uno spazzolino da denti in mano nel cortile del Wat Mai, uno dei templi più belli di Luang prabang?
Qualche anno fa stavo viaggiando zaino in spalla per il Laos.
Alcuni amici siciliani, con la loro onlus, avevano ricevuto un finanziamento dall’ambasciata francese di Vientiane per mettere in piedi alcuni laboratori artistici rivolti a ragazze vittime di abusi e di traffico di esseri umani nel sud del Laos.
Capisco presto che con tematiche così delicate, non posso improvvisarmi cooperante e dare una mano ai miei amici.
Decido quindi di andarmene a spasso per il paese.
Affitto una motocicletta e mi perdo per l’altopiano del Bolaven tra cascate, piantagioni di caffè e un paesaggio da far west.
Mi rilasso a Don Det, una delle 4.000 isole che il Mekong crea quando, al confine con la Cambogia, diventa ampio ben 14 km.
Basta un bungalow sul fiume, un’amaca, un buon libro, due passi, qualche frullato di papaya, un riso con le verdure, un’altra passeggiata e il sole è già ora che tramonti. Non c’è molto altro da fare. Si va a letto alle 8 e alle 5 si è già in piedi a gustarsi la foschia che ammanta il grande fiume.
Con calma risalgo il Laos fino ad arrivare nella capitale.
Vientiane si presenta con grandi vialoni sovietici ma con un traffico da paesotto di provincia.
Con le mani dietro la schiena come un pensionato giro in lungo e in largo la capitale.
Mi piace vedere i locali giocare a bocce, il petanque, in campi improvvisati.
La birra nazionale è buonissima.
Quello che più mi piace è infilarmi nei templi, togliermi le scarpe e guardare assorto i giganteschi Buddha dorati. C’è sempre incenso che brucia e appena un monaco ti vede, soprattutto se giovane, timidamente si avvicina per fare un po’ di conversazione in inglese.
Le loro vesti sono arancioni.
A Vang Vieng rimango un bel po’.
Montagne carsiche avvolte nel verde e risaie secche che ospitano partite di calcio al tramonto.
Dall’altra parte del fiume giunge però un rumore di ragazzotti in cerca di sostanze psicotrope a buon mercato ed infatti non è difficile trovarle. C’è persino musica techno la notte. Fa strano trovarsi a migliaia di km da casa dentro un bar a guardare I Simpsons o Friends alla tv.
Ora il governo ha dato un taglio a tutto ciò.
Luang Prabang potrebbe piacere persino ai miei genitori che oltre le Alpi non sono mai stati.
Credo sia per quell’aria coloniale francese che mescola Europa ed esotismo.
Rimango due settimane.
Noleggio una bici e miei occhi sorridono ad ogni pedalata.
Comincio a dare un nome ad ogni palma. Esaurisco con grande anticipo tutti i libri che ho a disposizione ma il book crossing di qualche guesthouse riserva buone sorprese.
Luang Prabang ospita dei templi molto antichi e il legno è uno dei materiali principali.
Il legno rende vivi gli edifici.
Verso sera, i monaci e i novizi intonano preghiere ipnotiche.
Un pomeriggio, mi infilo nel Wat Mai e due adolescenti vestiti d’arancione smettono quello che stanno facendo e cercano di praticare dell’inglese rudimentale con me.
Riusciamo a comunicare decentemente.
Phou, viene da Savannhaket e la sua famiglia spera che il figlio acquisisca meriti religiosi frequentando un tempio così rinomato ma a lui sembra interessare solo il suo smartphone.
Thou invece, viene dalle montagne vicine e Luang Prabang gli sembra la capitale del mondo.
Ha voglia di viaggiare e di proseguire gli studi di buddismo theravada anche se la meditazione non gli riesce ancora tanto bene.
Smettiamo di parlare e iniziamo a giocare ad una specie di calcio-pallavolo con una pallina di bamboo. Ci divertiamo e ridiamo. Purtroppo Phou, nel tentare di fare una rovesciata, fa cadere una
statua di un Buddha nella posizione del loto.
Nel mentre che lo riposizioniamo, esce un monaco che mi insegna all’istante le tipiche imprecazioni laotiane.
Nel giro di pochi secondi escono altri monaci dalle loro baracche. Più che arrabbiati sembra che se la stiano ghignando. Tranne il monaco che ci ha scoperti.
Immagino torture assurde, tipo legato ad una sedia con una goccia inesorabile che buca il cervello.
Niente di tutto ciò. Il monaco sparisce e dopo un po’ ritorna con due bruschini e uno spazzolino da denti.
A me spetta ovviamente lo spazzolino. Ci mettiamo a pulire tutte le statue del cortile del tempio.
Sorridiamo e pure cantiamo. Terminiamo all’imbrunire.
Il monaco, seduto sotto un albero, ride bonariamente e manda i due novizi nelle loro stanze.
Mi fa avvicinare e mi chiede se mi sia divertito ad essere punito.
Io me la sono passata bene. Tant’è che sto qui a scriverne.
Inforco la bici e vado via.
- Racconto di Paolo
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via Non dimenticare lo spazzolino da denti in Laos
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